martedì 14 marzo 2017

"Questo è solo per dire"


 "This is Just to Say"    è il titolo di una breve poesia di William Carlos Williams, un esempio del suo oggettivismo conciso, apparentemente freddo, ironico, semplice e manierato nei dettagli,  senza pensieri profondi, idee, o concetti:

Ho mangiato
 le susine
che erano nel
 freezer
 e che tu avevi probabilmente
 conservato
 per la colazione.
Scusami
erano deliziose
così dolci
e così fredde 
(1)  traduzione di Corinzia Monforte

Eppure il fatto banale, oggetto della poesia è tale solo se rapportato al quotidiano. Questa apparente  nota sul tavolo della cucina o appesa al frigo che risponde alla poetica della banalità, del particolare che diventa enorme é tutt’altro che ovvietà poetica.

E’ infatti un  “solo per dire” delle umane tentazioni a cui si cede inesorabilmente,  un flash del quotidiano, l’apoteosi dell’inezia,  esempio sublime d'imagismo, e se vi guardiamo dentro    è una poesia d’amore. Che parla diversamente d’amore, anche se di un amore per nulla eccezionale, uguale a tanti altri, che  è magnificato perfino dall’egoismo, suo contrario.

Come in uno di quei sonetti shakespeariani (2), dove l’amante attraverso l’esaltazione dei difetti dell'amata canta l’autenticità e la schiettezza del suo sentimento, così Williams chiede scusa per un peccato di gola, non senza ricordare sensualmente il piacere provato nel commetterlo, e tuttavia si dispiace al pensiero che il suo gesto avrà rovinato la colazione della sua lei. 

“Questo è solo per dire”  è un’immagine a caso che illustra un sentimento popolare attraverso parole che  di certo ingannano se non si procede oltre l’immediata lettura. Come avviene per quelle cose che ogni giorno si vedono senza alcuno sguardo e che lasciano sfuggire che proprio lì risiede la poesia, proprio dove non la si vede, nelle cose di ogni giorno.



(2)  Sonetto 130 (“Gli occhi della mia signora non sono per nulla come il sole”)

 

 

The Collected Poems of William Carlos Williams,  Ed.  A. Walton Litz, Christopher Macgowan, 1991

W.C.Williams, Paterson, Mondadori, 1997

W.C.Williams, Molti amori, Einaudi, 1997

W. Shakespeare, I Sonetti, Newton, 1988

La follia di Thomas Nashe


 

Jack Wilton, protagonista del  Viaggiatore Sfortunato”, nonché io poetico ed alter ego di Thomas Nashe,  è l’esempio perfetto dell’ antieroe, la versione capovolta  del cavalier cortese di memoria medievale, il contrario del saggio uomo del Rinascimento così  come appare nell’immaginario collettivo. E’ un ladro, un bugiardo, un furfante che indossa la maschera della follia per permettere al suo autore di dire quello che gli pare sul mondo e sulla società contemporanea.

Nashe si fa burla della vita  e di tutto quello che della vita non approva, e si fa pazzo attraverso il suo Jack, personaggio creato attingendo ai racconti osceni di Rabelais, di Chaucer, alla commedia dell’Arte e al  rude umorismo dei Fablieaux .

Nel “Viaggiatore Sfortunato” il  mondo è capovolto, la moralità è un’altra e ben diversa da quella corrente e tutto si fa comico, paradossale, ma tremendamente vero.

Lo scemo-saggio,  buffone di corte nonché  bocca della verità che per scherzare dice il vero,  attraverso   una    visione lucida e forte,  ci racconta dell’ipocrisia della società, della malvagità degli esseri umani  e della stupidità corrente da cui pochi sembrano salvarsi.

Gesta oscene e maliziose  vengono raccontate allegramente in uno strano miscuglio dove serio e faceto sono intercalati da sobri sermoni contro il malcostume, i limiti intellettuali e culturali del tempo,  gli eccessi della Chiesa.

Sembrano quasi stonare il tono didattico e quello burlesco; e stridente e  paradossale appare la satira contro la poesia rinascimentale di cui l’autore era pure esponente. Denigrando  l’immagine di Surray,  Jack Wilton  si fa  beffa della vuota retorica dei versi del suo tempo.

E la  folle figura di Jack Wilton é la libertà espressiva di Thomas Nashe.     

 

 

AA.VV. An Anthology of Elisabethan Prose Fiction. Oxford, OUP, 1987.

J.Hollander, F.Kermode, The Literature of Renaissance England, USA, OUP,  1973.

La rabbia di Jimmy Porter



Jimmy Porter, protagonista di Look Back in Anger[1],  nonché riflesso autobiografico di John Osborne, è un giovane colto di origine operaia che aveva sognato una vita diversa da quella che la società finisce con l’offrirgli.

Porter vive con la moglie Alison in un monolocale  squallido e sporco  tra un lavabo, un asse da stiro, ed  orribili mobili desueti che alimentano la rabbia e il sentimento per tutto ciò che lo circonda, compresa la moglie, la cui estrazione sociale è quella borghesia che Jimmy detesta.

Jimmy è  alto e magro, impaziente, orgoglioso, diretto e impetuoso  e verbalmente violento. Ha la rabbia di chi ha subito l’ingiustizia sociale, di chi lottando non ha visto riconosciuti  i propri meriti e pur avendo studiato e dal basso sognato di condurre un certo tipo di vita si sente emarginato.

Ma Jimmy è uno snob che offende perché offeso dalla volgarità, dai luoghi comuni e dalle ipocrisie di una società in decadenza.  Un personaggio apparentemente contraddittorio, ma quanto mai realistico. Del paradosso ha l’immagine con cui la moglie Alison lo aveva idealizzato, della realtà ha l’immediatezza che si rispecchia nelle frasi gergali con cui si esprime.

Ma Look Back in Anger non racconta di liti:  perché il protagonista è tollerato con rassegnazione, silenzio o ironia da chi lo conosce ed oramai nemmeno lo ascolta più.

Come un bambino suscita tenerezza ed ha bisogno di amore, crede nei sogni ma si deve scontrare con la realtà. Portavoce degli Angry Young Men, i Giovani Arrabbiati  degli anni ’50, Jimmy Porter rappresenta  il gap di una generazione che vedendo  venire a mancare  gli antichi valori, le illusioni della gioventù   guarda al passato col dolore per la scomparsa delle ultime cose buone rimaste.

(1) In Italiano conosciuto col titolo “Ricorda con rabbia”

Riferimenti bibliografici

K. Allsop , The Angry Decade: A Survey of the Cultural Revolt of the Nineteen-Fifties, Owen Ltd, London, 1969

J. Osborne, Look Back in Anger, Faber&Faber, London ,1957




[1] In Italiano “Ricorda con rabbia”

Il Dramma Elisabettiano


Un viaggiatore del tempo che si trovasse ad assistere alle tragedie greche per poi catapultarsi nell’Inghilterra dei Tudor rimarrebbe impressionato dalla fondamentale diversità dei due tipi di rappresentazioni sceniche.

Colpisce in primo luogo la modalità di presentazione del tempo da parte del dramma shakespeariano rispetto alla tragedia greca. Nel mondo antico infatti l’opera iniziava in medias res, cioè a fatti già accaduti, e i personaggi tragici non dovevano che raccontare, spiegare il motivo del loro dolore; Shakespeare invece, in un fluire diacronico, lascia che sia lo spettatore ad assistere a ciò che accade. Fatto impensabile e assurdo secondo la logica pseudo-aristotelica che pretendeva l’unità di tempo, di azione e di luogo.

Il dramma classico infatti poneva la sua enfasi sugli effetti delle azioni umane, sulla tragicità intrinseca e sofferta dei personaggi, piuttosto che sul racconto dei fatti. La catarsi era il fine, e a tale scopo era necessaria l’immedesimazione. Questa era la giustificazione connessa al richiamo alle regole.

Ma Shakespeare va oltre questa disubbidienza. E rompendo anche con la netta, classica distinzione tra dramma, tragedia e commedia si fa demiurgo di opere che insieme alla commozione regalano il sorriso. Proprio ad imitazione della vita stessa dove la gioia si mescola al dolore ed il riso al pianto, i personaggi shakespeariani, fuoriuscendo dai modelli, diventano umani: maschere tra gli uomini, uomini che solo indossano una maschera.

E la tragedia classica, un tempo proiezione di emozioni, cede il passo al dramma elisabettiano che è specchio della vita;  ed il teatro,  come recitava l’iscrizione sul “Globe Theatre” di proprietà di William Shakespeare non è che il mondo. Perché

"Totus mundus agit histrionem” (1)

 

 

 

 

(1) Tutto il mondo recita una parte.

 

Riferimenti bibliografici:

G. Baldini, Manualetto shakespeariano, Einaudi, 2001.

C. Segre, Teatro e romanzo, Einaudi, 1984.

W. Shakespeare, Tutte le opere, Sansoni, 1964.

Chaucer e Boccaccio


 

 

 

L’influenza di Boccaccio in Chaucer fa parte di quel genere di suggerimenti letterari che  si rivelano diversamente da come erano stati inizialmente percepiti. Che la cornice dei Racconti di Canterbury sia il riflesso della cornice del Decameron è elemento noto ed innegabile. La prima  però, differentemente dall’altra,  finisce con l’essere l’elemento portante del libro per una serie di motivi che vanno oltre il fatto che  si tratti di un’opera incompiuta.

Laddove infatti il Boccaccio aveva indistintamente scelto a protagonisti dei giovani di buona famiglia, tralasciandone la personalità, Chaucer invece sceglie con cura ogni personaggio traendolo da differenti classi sociali.

Quelli di Chaucer, anche se appartenenti alla tradizione, come la priora, il frate libertino, il medico venale o il parroco onesto sono personaggi ben lungi dall’essere stereotipi, anzi sembrano quasi in carne ed ossa, e il poeta li scruta con simpatia ed affetto, li analizza non focalizzando l’attenzione sulle maniere  al modo del Boccaccio, ma tentando di raccontarli dal punto vista psicologico attraversi descrizioni dettagliate.

Chaucer sembra a volte perfino innamorato dei suoi personaggi, come accade con la Priora di cui ironicamente racconta particolari che potrebbero metterla in cattiva luce soltanto al lettore più bacchettone. Così di fronte a  questa suora che si impietosisce per i suoi cagnolini e che porta scritto sul bracciale “Amor vincit Omnia”  lasciando intendere un tipo di amore tutt’altro che sacro, il lettore moderno sorride di simpatia e la sente vicino a sé e ai suoi tempi.

Oltre la boccaccesca idea della raccolta di storie,  molto di più di un affresco del Medio Evo, i Racconti di Canterbury sono una galleria di esseri umani da annoverare a tutti i tempi.

 

 

 

Riferimenti bibliografici:

G. Chaucer, The Canterbury Tales tradotto (in inglese moderno) da B. Raffel, New York,  2008.

G. Boccaccio, Decameron, Milano, 2008

P. Boitani, Chaucer and the Italian Trecento, Cambridge, 1983

sabato 11 marzo 2017

Tra la gente di Dublino: Eveline

Eveline ferma a pensare davanti alla finestra.: sta per lasciare casa sua, via per sempre col suo ragazzo, Frank, alla volta di Buonos Aires dove l’aspetta un’altra vita. Da lì guarda le case che si trovano dove prima, nella sua infanzia, c’era il campo in cui i bambini giocavano: i Devine, i Water, i Dunn, il piccolo Keogh che chiamavano lo zoppo, e i suoi fratelli, le sue sorelle e suo padre, le persone più importanti della sua vita.
Rivede “ tutti i suoi oggetti familiari che per così tanti anni aveva spolverato una volta alla settimana”, “tutti quegli oggetti familiari da cui mai avrebbe immaginato si sarebbe separata.
Eveline é avvolta da un’atmosfera statica, malinconica, immersa in una solitudine calda ed un silenzioso senso di tristezza, come in un addio.
Ma partire adesso non sembra più necessario. Eveline potrebbe anche rimanere e forse sarebbe questa la scelta più saggia. Casa sua è il nido più sicuro accanto ai suoi cari, nonostante rimanere le imponga anche di continuare a lavorare duro sia a casa che ai magazzini dove fa la commessa. Abbandonare quest’ultimo posto però non le dispiacerebbe affatto. E lontano da casa sarebbe stato completamente diverso: si sarebbe sposata e la gente l’avrebbe rispettata.
Eveline associa gli oggetti che vede a ricordi, persone ed episodi che hanno segnato la sua vita: le case che sorgono al posto del campo da gioco e i bambini con cui giocava, la foto di un prete appesa al muro e la maniera in cui suo padre ne confondeva l’identità.
Niente succede davanti alla finestra, se non un continuo flusso di pensieri, ricordi e considerazioni che si susseguono, si accavallano e si confondono coi sentimenti.
Eveline è un personaggio interiore: del suo essere fisico si percepisce solo un’ombra, mentre i suoi pensieri animati tessono la trama del racconto.
Il tempo si aliena ogni forma di diacronia e si fa sincronico, muovendosi avanti e indietro, inseguito dai ricordi culminanti nell’epifania:
“Mentre pensava, la pietosa immagine della vita della madre poggiava il suo incantesimo nel suo essere più profondo – quella vita di comuni sacrifici che finiva nella pazzia finale. Tremava mentre sentiva ancora la voce di sua madre che diceva costantemente con assurda insistenza:
“Derevaun Seraun! Derevaun Seraun!”
Si alzò in un improvviso impulso di terrore. Fuggire! Fuggire! Frank l’avrebbe salvata. Le avrebbe dato la vita, forse anche l’amore. Ma lei voleva vivere. Perché doveva essere infelice? Aveva il diritto di essere felice. Frank l’avrebbe portata tra le sue braccia, avvolta tra le sue braccia, L’avrebbe salvata”.
Partire é la scelta giusta.
Eveline si ritrova al porto, mentre sta per salire sulla nave. La sua mano in quella di Frank. Lui aveva fatto tanto per portarla con sé, il biglietto era stato pagato e lei non poteva più tirarsi indietro.
La storia si svincola tra la polvere ed il mare, la prima a simboleggiare la staticità del vecchio, il chiuso della consuetudine e i limiti che la vita ci impone, ed il mare che è acqua e quindi rinnovamento, che è aperto e quindi è libertà.
Ma Eveline è di Dublino, appartiene cioè ad una città il cui tratto distintivo è quella “paralisi” che impedisce alla sua gente di migliorare le proprie condizioni di vita. Eveline appartiene ad un mondo in cui non accade nulla e le azioni fluiscono nel solo pensiero dei suoi abitanti.

Wordsworth e Coleridge e il potere dell'immaginazione

- i due poeti amici, che con i loro scritti di prosa di stampo estetico hanno posto le basi al Romanticismo inglese- affascinati da un’idea ontologica di poesia che ne ricercasse la vera origine, erano pervenuti alla conclusione poco democratica secondo cui il poeta è colui il quale detiene il potere dell’immaginazione. Quest’ultima per entrambi è ben lungi dall’essere semplicemente un’attività mentale che permette di concepire liberamente immagini e pensieri, ma risulta qualcosa di più complesso che pone un netto divario tra il poeta e il comune mortale.
Coleridge innanzi tutto marca una differenza sostanziale tra immaginazione e fantasia (o immaginazione secondaria) la quale soggetta e limitata alle leggi dell’associazione, dispone di immagini senza vita che si trovano accatastate nella memoria in maniera quasi meccanica, laddove l’immaginazione trova un effettivo riscontro nel mondo reale. L’immaginazione è cioè qualcosa di paradossalmente vero capace di creare la realtà ed introdurla nel mondo attraverso le cose ideali.
Wordsworth riteneva invece l’immaginazione come quel tocco speciale del poeta che, permettendogli di creare realtà oniriche fondate su aspetti quotidiani del viver comune, fa sì che l’usuale diventi fantastico. Per il poeta di Cockermouth la poesia è lo specchio della realtà, l’immagine del vero filtrata attraverso la lente dell’immaginazione.
A questo punto c’è da sottolineare quanto i due laghisti fossero diversi caratterialmente. Più realista, saggio e pacato Wordsworth, più visionario, “folle” e impulsivo Coleridge a causa soprattutto dell’uso frequente di oppio (a scopo terapeutico) che inducendolo a confondere il sogno con la realtà lo portava a scrivere poemi fantasmatici come il Kubla Khan e la Ballata del Vecchio Marinaio.
Quelli di Coleridge e Wordsworth sono dunque due processi inversi e speculari di poesia: creare il sovrannaturale sì da farlo apparire reale, e ridipingere di bello la realtà da farla sembrare un sogno.

Il Pigmalione di George Bernard Shaw

Nella mitologia greca Pigmalione era l’artista che avendo creato una statua talmente bella da innamorarsene aveva avuto concesso da Afrodite che la sua creazione diventasse un essere vivente sì da sposarla ed essere felice con lei.
“Pygmalion” (1912) una delle più importanti commedie di George Bernard Shaw racconta la storia del ricco ed eccentrico professor Higgins che si propone di trasformare la povera ed ignorante Eliza in una donna raffinata attraverso l’insegnamento della lingua e delle buone maniere.
Ma Eliza non è la Cenerentola della favola, ne’ Higgins è il principe azzurro. Shaw in questa sua commedia a tesi – tipo di genere da lui lanciato che si proponeva di risvegliare la coscienza sociale - intende proprio criticare il mito di Cenerentola o di altri parvenue resuscitati ad altra vita.
Eliza vivrà e studierà nella casa di Higgins dove oltre alle buone maniere imparerà la dizione, la grammatica e la sintassi, ma la sua metamorfosi le comporterà un totale cambiamento del suo modo di essere. Il professore non ha la minima stima di Eliza, la tratta quasi come un animaletto; o per lo meno Higgins ci appare come un colone, un Robinson Crusoe, che insegna la sua lingua al suo schiavo indigeno.
Al di là della prospettiva comica, che fa ridere il pubblico per la pronuncia e il modo di parlare della povera fioraia, c’è una feroce critica al classismo britannico che distingue le posizioni sociali anche e soprattutto attraverso l’inflessione linguistica. E c’è ancor di più il problema della manipolazione degli individui da parte delle classi superiori nei confronti di chi é ignorante. Niente di più attuale in una società dove un moderno Pigmalione può fare del popolo la sua Galatea.

La tragedia di Re Lear

Re Lear è una tragedia di violenza, odio e tradimenti che narra di un uomo, Re Lear il quale nel momento di dividere l’eredità, chiede a ciascuna delle tre figlie di esprimere quantitativamente l’amore per lui. Le figlie più grandi, Gonerilla e Regana, commuovono il poco perspicace animo paterno con frasi iperboliche ed esagerazioni di ogni sorta, mentre Cordelia, la figlia più piccola, si limiterà ad affermare che il suo amore per il padre è grande tanto quanto lo è normalmente quello di una figlia nei confronti del genitore. Questa affermazione riscuote l’ira del vecchio Lear che decide di diseredare Cordelia e dividere il suo regno tra Gonerilla e Regana.
Ma Lear che avrebbe voluto abdicare per trovare la pace e la serenità nell’ ultima sua parte di vita, si ritrova ad affrontare le disastrose conseguenze della scelta fatta che sarà causa di dolore per coloro i quali lo amano e di follia per se stesso, dopo essersi reso conto di aver confuso l’amore con le parole.
Così, in un mondo dove regnano i peggiori sentimenti e l’animo umano è sviscerato in tutte le sue nefandezze si assiste alla shockante e violenta immagine di una famiglia che si disintegra e Lear, trattato dalle figlie da lui prescelte come un vecchio stolto, si ritrova disperato nella brughiera nel pieno di una tempesta:
“Erutta dallo stomaco! Sputa, fuoco! Scroscia, pioggia!
Ne’ la pioggia, ne’ il tuono, ne’ il fuoco sono le mie figlie:
non accuso di ingratitudine voi, voi elementi della natura
a voi non ho dato mai un regno, non vi ho chiamato figli,
voi non mi dovete alcuna obbedienza: allora, lasciate cadere
il vostro orribile piacere; io sto qui, vostro schiavo,
povero, infermo, debole vecchio disprezzato.
Eppure io vi chiamo ministri servili,
perché vi siete uniti a due figlie perfide
per scatenare le vostre guerre contro una testa
vecchia e bianca come questa. Oh! Oh! E’ disgustoso.”
La tragedia -che si risolve con la straziante morte di Cordelia tra le braccia del padre e poi dello stesso Lear- risulta talmente shockante che dopo la morte di Shakespeare venne riscritta con un finale positivo per riaffiorare nella sua forma originaria solo nel XIX secolo.
La forza di “Ra Lear” sta nel modo in cui una miriade di temi tra cui la sofferenza, l’ amore in senso universale, la follia, la crudeltà, la violenza e la colpa vengono trattati. Ma anche per le frasi lapidarie che sono la preziosa prerogativa delle opere di Shakespeare, come quella dove Cordelia, non volendo far mostra di ciò che vi è di più intimo dice a se stessa:
“Ama e fai silenzio” (2).
________________________________________________________
(1) “Rumble thy bellyful! Spit, fire! spout, rain! /Nor rain, wind, thunder, fire, are my daughters:/ I tax not you, you elements, with unkindness;/I never gave you kingdom, call’d you children,/ You owe me no subscription: then, let fall /Your horrible pleasure; here I stand, your slave, /A poor, infirm, weak, and despis’d old man./ But yet I call you servile ministers, /That have with two pernicious daughters join’d / Your high-engender’d battles ’gainst a head /So old and white as this. O! O! ’tis foul.”, Atto III , Sc. II.
(2) “Love and Be Silent” ,Atto I, Sc. I , (traduzione di Corinzia Monforte).

Il dramma postmoderno di Tom Stoppard

Tom Stoppard sviluppò quell’idea esistenziale di teatro che era stata già di Pirandello e che nello stesso periodo viene abbracciata anche da drammaturghi quali Samuel Beckett e Harold Pinter.
Il nesso metaforico della vita come teatro, cioè come luogo di eterna finzione in cui ogni essere umano non è che la parte che recita simbolicamente, sta a quell’assenza di certezza e a quella relativizzazione della realtà che è il cardine del pensare moderno.
Il dramma postmoderno di Stoppard, così come quello di Pirandello, Marinetti, Mayakovsky e Ionesco, divincolandosi attraverso codici espressivi fortemente simbolici e spesso per nulla realistici ci mostra un’immagine dell’uomo che ne nega l’effettiva esistenza e lo relega all’ontologica condizione di mera frammentaria illusione. Altro che “animale sociale” o “animale politico”. L’uomo di Stoppard non è nemmeno un “animale umano”, nemmeno una marionetta, ed è circondato da paesaggi irreali o perlomeno alieni alla realtà.
In “Rosencrantz e Guildenstern Are Dead” i protagonisti che vivono solo nelle parole del copione del loro autore, ma sono intrappolati nei pochi versi dell’Amleto da cui non riescono ad uscire, negano il minimo senso al loro esserci.
Così partendo dalla frase di Shakespeare:

“Rosencrantz e Guildenstern sono morti”

che già poco aveva detto di questi due personaggi minori assurti nel dramma postmoderno al ruolo di protagonisti, Stoppard si ferma per aggiungere ben poco alla consistenza di questi due effimeri personaggi. Rosencrantz e Guildenstern confondono la loro stessa identità perfino tra loro e poco dicono, sanno o ricordano della loro vita presente e passata.
Rosencrantz e Guildenstern sono effettivamente morti. Ma non come amici di Amleto per cui questa notizia giunta aveva un benché minimo significato. Rosencrantz e Guildenstern sono morti perché non sono mai nati del tutto. Perché vivono solo in un dramma dell’assurdo. E risultano solo abbozzi, scarabocchi umani che si muovono sul palcoscenico.

Murder in the Cathedral

Murder in the Cathedral”, “Assassinio in cattedrale” , è il capolavoro teatrale di T. S. Eliot che descrive il ritorno di Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury in Inghilterra in seguito all’esilio impostogli da Enrico II, a cui il futuro santo aveva negato di anteporre gli interessi dello stato a quelli della Chiesa di Roma.
Nell’Inghilterra del XII secolo quando un sacerdote, o chiunque apparteneva alla casta clericale, commetteva un crimine, non poteva essere giudicato da un tribunale ordinario ma doveva rispondere ad un tribunale ecclesiastico al quale sarebbe bastato il pronunciato pentimento del colpevole per garantirgli la non condanna.
Questo stato di cose appariva intollerabile ad Enrico II che quindi fece eleggere arcivescovo di Canterbury, carica massimamente importante nella chiesa inglese, il suo migliore amico, Thomas Becket, colui che di certo lo avrebbe favorito nella sua pretesa di non sottomissione totale alla chiesa di Roma. Ma una volta diventato arcivescovo, Thomas Becket gli voltò le spalle: non poteva tradire la sua Chiesa per la sua amicizia col re.
Il diniego gli causò l’esilio. E quando il popolo di Canterbury pretese a gran voce il ritorno del suo arcivescovo, quattro cavalieri introdottisi in cattedrale uccidono Thomas Becket a cui era stato appena concesso di rientrare dalla Francia.
La storia non ha mai svelato il vero mandate dell’ omicidio, ma ogni elemento fa pensare ovviamente ad Enrico II che successivamente si recò spesso nella cattedrale di Canterbury, divenuta subito luogo di pellegrinaggio, a far visita alle reliquie dell’amico.
In un dramma altamente poetico che nel riesumare il personaggio del coro si rifà tipologicamente alle tragedie greche, T.S. Eliot riprende i fatti a partire dall’arrivo di Becket a Canterbury.
La particolarità e la bellezza dell’opera, godibilissima in versione teatrale ma meravigliosa alla semplice lettura, sta nella soggettivizzazione del dramma da parte di Eliot che fa vivere al lettore o allo spettatore i conflitti interni dei personaggi, da Becket ai cavalieri fino alle donne di Canterbury, mettendo a nudo paure, sensi di colpa, e conflitti propri dell’animo umano.
Al di là di ogni azione esteriore che il titolo dell’opera potrebbe suggerire, “Murder in the Cathedral” non racconta di un omicidio; semplicemente racconta poco o nulla, e piuttosto suggerisce e pone all’ascoltatore problematiche che gli appartengono e che lo spingono a pensare.
Il conflitto tra bene e male, tra anima e corpo, il significato della santità, il valore del sacrificio più che questioni religiose sono qui interrogativi umani. E oltre questi temi, scavando in questo senso, affiorano anche immagini da “Terra Desolata”, perfetto specchio dell’animo moderno che, attraverso le donne di Canterbury, comunicano la paura del vuoto esistenziale, lo stesso che si ritrova negli “Hollow Men”.
Più che un dramma storico, “Murder in the Cathedra” é quindi un dramma di tutti i tempi. Il dramma dell’umanità che pensa, che soffre, che sceglie, che teme e che con la ragione cerca di giustificare se stessa sempre, perché:
“L’ultima tentazione è il più grande tradimento:
fare la cosa giusta per una ragione sbagliata” (1).
“.
(1)”The last temptation is the greatest treason: // To do the right deed for the wrong reason

La grandezza di Shakespeare


Spesso la grandezza di un artista è riconoscibile solo attraverso la contemplazione della bellezza delle sue opere. Ma non nel caso di William Shakespeare il cui genio universale riesce anche a superare questo limite e ad essere giustificabile oltre il fascino della sua poesia
Shakespeare infatti può ben dirsi il più completo ed eclettico poeta di tutti i tempi.
Il periodo in cui scrisse, il culmine del Rinascimento inglese, lo vide comporre una gamma di opere talmente varia da non poter essere paragonata a quella di nessuno scrittore di teatro prima o dopo di lui.
Commedie di stampo plautino, o tragedie senechiane, oppure opere che attingevano a fonti dell’attualità di allora, o alla storia inglese come i drammi storici (’”EnricoVI”, “Riccardo III”, “Re Giovanni”, “Riccardo II”, ”Enrico IV”, “Enrico V” ed “Enrico VIII”), e perfino tragedie risalenti alla storia romana come “Giulio Cesare” si aggiungono ai drammi e alle commedie più famose difficilmente etichettabili ad un tema principale.
In questo immenso repertorio Shakespeare, uomo di teatro oltre che drammaturgo ed impresario-azionista del Globe Theatre, seppe destreggiarsi creando opere che piacessero a tutti: dalla gente del popolo che con pochi pence poteva permettersi di andare al teatro, all’intellettuale che vi si recava per arricchirsi lo spirito.
Shakespaeare sapeva coniugare le canzoni e le danze con gli intrecci della trama, la battuta spinta e i doppi sensi con la riflessione filosofica, il gusto per le scene violente con la delicatezza romantica dei dialoghi d’amore.
E soprattutto ebbe anche il merito di essere un anticipatore della modernità.
Tra i primi ad introdurre in letteratura i toni foschi e cupi che qualche secolo dopo saranno lanciati dallo Sturm un Drang, il bardo di Stratford fu il primo grande a far calare il buio e abbattere tempeste in un panorama letterario dove la luce e l’azzurro del cielo avevano da sempre fatto da sfondo ad ogni storia.
Shakespeare irrompe nella letteratura innescando elementi come il dubbio, la malinconia, la ricerca del senso della vita, tipici dell’esistenzialismo moderno, o il problema dell’amore e della relazione tra individui, l’umana sete di potere e di autoaffermazione, i motivi dell’odio e della vendetta.
Temi che lo staccano nettamente da tutti i letterati che lo precedono e lo seguono, ritagliandolo in un era che non appartiene a nessun secolo. Come avviene solo per i geni.

Il buonismo di Charles Dickens

Nei suoi romanzi Charles Dickens si scaglia contro le miserevoli condizioni dei poveri del suo tempo.
In un’epoca in cui la povertà veniva considerata un crimine, i poveri andavano puniti e confinati nelle workhouse dove chi non si era impegnato abbastanza per ottenere soldi e successo andava rieducato attraverso il lavoro forzato.
In romanzi quali il celebre ’”Oliver Twist”, lo scrittore vittoriano racconta dettagliatamente le condizioni di vita di queste case di lavoro, focalizzando l’ attenzione sui bambini che avrebbero commosso il lettore più facilmente.
In questi romanzi il bene si scontra col male ed il bieco mondo criminoso della Londra vittoriana sembra prevalere su tutto sempre, tranne che nel finale quando il male sarà sopraffatto dal bene e i cattivi saranno puniti.
Ma Charles Dickens è un buonista, un conservatore dall’aria riformista, un progressista a parole, uno scrittore di best seller che scriveva per vendere e guadagnare raccontando di chi invece i soldi li vedeva solo tra le mani degli altri.
Dickens scrive per commuovere ma non si commuove. E’ un freddo narratore onnisciente che si intromette per chiarire le situazioni e si rivolge al lettore direttamente e dall’alto della sua conoscenza assoluta, aiutandolo ad un’interpretazione “corretta” del fatto narrato.
Il portavoce delle nobili idee sottese ai suoi romanzi nasconde dietro il piagnisteo un mood ipocrita e falso proprio come l’età in cui vive. E i suoi bambini indifesi e maltrattati non sono che patetiche creature che suscitano sentimenti soltanto nell’animo del lettore ingenuo.

La ballata medievale

Appartenente alla tradizione orale, uno dei più popolari generi dell’età medievale, la ballata, era una sorta di canzone ballabile (da cui deriva il nome) che narrava di storie tratte dal repertorio dei racconti popolari o di carattere storico.
La formula della ballata medievale prevedeva una semplice struttura narrativa basata su quartine in rima (generalmente ABCB) e versi giambici di otto e sei sillabe. Sue peculiari caratteristiche erano le allitterazioni, le ripetizioni, e soprattutto il ritornello che era solitamente ripetuto e cantato anche dagli ascoltatori. Un’altra caratteristica era l’utilizzazione di domande retoriche che si ripetevano ossessivamente fino a diventare quasi un refrain, il che contribuiva a dare un tono di mistero e di attesa a tutta l’atmosfera.
I temi della ballata erano vari e andavano dall’amore, alla morte, al sovrannaturale, a storie di fuorilegge o di eroi, alla religione. Ma la fusione di più temi dentro una stessa composizione era abbastanza diffusa e contribuiva a rendere questo genere vario, contrariamente a come la ballata viene in genere considerata.
La celebre storia di Robin Hood, ad esempio, il fuorilegge di Sherwood che rubava ai ricchi per dare ai poveri, appartiene proprio a questo genere letterario. Per non dire di tanti altri personaggi alcuni dei quali sono stati immortalati dalla cultura moderna come il Geordie che il nostro De Andrè ha interpretato in una sua famosa canzone.
La principale pecca artistica che viene imputata alla ballata è la mancata originalità di stile che risulta emblematica nelle descrizioni spesso espresse con formule identiche.
Ma stiamo parlando di letteratura medievale. Di un epoca in cui le lingue, non del tutto foggiate, versavano ancora nello stato di “volgare”, e gli inglesi, come gli artisti di tutto i mondo, per evadere dal quotidiano potevano anche non curarsi dell’originalità.
D’altra parte la nostra moderna canzone, non può che essere debitrice della ballata.

Percy Bysshe Shellley

La poesia di Percy Bysshe Shelley (1792-1822) parla a voce alta. I due più importanti aspetti del suo verso, poesia pubblica politica e poesia filosofica e privata, assumono toni profetici che riflettono le disarmonie di un’epoca tumultuosa e la personale lotta politica di un poeta che è stato profeta e maestro per la sua generazione.
Ma Shelley parla e vive i problemi sociali non solo attraverso la scrittura. E’ un poeta d’azione, uno che non si contenta delle sole parole e che attraverso la propria esistenza ha dimostrato di essere ciò che scriveva.
Pur vivendo in una nazione senza particolari problemi libertari, Shelley scelse l’esilio ritenendo che anche in assenza di leggi restrittive, i concittadini e la morale corrente riuscissero ad impedire ad uno spirito libero di potere essere se stesso, convinto come era che la libertà in una società civile non fosse mai abbastanza.
La famiglia e la classe sociale erano per Shelley le grate di una morale convenzionale che lo legavano ad un mondo dietro cui non riusciva a rimanere.
Così l’aristocratico poeta ribelle nel luglio del 1814, dopo aver abbandonato la moglie Harriet -che poco dopo si toglierà la vita- si stabilì in Italia con la giovane Mary Godwin figlia del filosofo teorico dell’anarchismo William Godwin di cui era discepolo e di Mary Wollestoncraft, filosofa antesignana del femminismo.
Shelley è il portavoce radicale del suo momento storico. Per lui la poesia deve essere la “tromba di una profezia”; il ruolo del poeta è quello di maestro. Ma il poeta-profeta Shelley non parla, come certi poeti-vati, per ispirazione divina.
“Shelley il pazzo” o “Shelley l’ateo” -come lo chiamavano all’università- rifiuta la religione così come ogni forma di istituzione che si fonda su leggi a cui bisogna soggiacere. La sua idea di Dio è quella di un Tiranno che estendendo la propria volontà sugli uomini ne limita la libertà.
Col suo agnosticismo e i suoi atteggiamenti rivoluzionari anche nei confronti delle relazioni sessuali Shelley è profeta del nuovo. Il suo entusiasmo folle e la sua natura idealista ne fanno un moderno Prometeo del tutto assimilabile a quel personaggio di Franakestein di cui la moglie Mary è autrice sicuramente ispirata da lui.
La libertà è stato l’ideale della sua vita, la sua vita stessa, nonché la sua morte avvenuta al largo di La Spezia, mentre veleggiava sulla sua barca in quel Mediterraneo che personifica uno stato di natura di cui Shelley non era mai sazio.

L' "Ode al Vento dell'Ovest" di Shelley.

Scritta nell’autunno del 1819, questa é tra le più conosciute della poesia romantica inglese. E’ ambientata in un luogo preciso e concreto, un bosco nei pressi dell’Arno, in un esatto periodo dell’anno, l’autunno, come lo stesso Shelley scrive riferendo le circostanze dell’ispirazione poetica:
” This poem was conceived and chiefly written in a wood that skirts the Arno, near Florence, and on a day when the tempestuous wind, whose temperature is at once mild and animating, was collecting the vapours which pour down the autumnal rains. They began, as I foresaw, at sunset with a violent tempest of hail and rain, attended by that magnificent thunder and lightning peculiar to the Cisalpine regions” (1).
L’ode é una preghiera al vento, invocata in un momento esistenzialmente difficile per il poeta che osserva le foglie , le nuvole e il blu del Mediterraneo e ascolta la voce del vento.
Shelley non dà una descrizione dettagliata di un paesaggio terrestre o marino, ma riflette su un’immagine interiore del vento, “distruttore” in quanto annientatore del “vecchio” e conservatore poiché raccoglie e sparge i semi del futuro.
Il poeta vorrebbe essere portato via come una foglia, un’onda o una nuvola. E gli viene in mente la sua fanciullezza quando non gli sembrava impossibile nulla e poteva correre insieme al vento impetuoso come lui, come lui indomabile.
Ma anche adesso che è ha conosciuto i rovi della vita e si trova in una situazione dolorosa non ha smesso di sognare, di anelare all’impossibile. La terra ha bisogno di essere risvegliata dal vento, di rinascere dalle ingiustizie e dagli errori politici e sociali. E il poeta, profeta rivoluzionario può farlo. Così chiede al vento che le sue parole possano, come cenere e lapilli, accendere una rinascita umana, perché
“se l’inverno viene, può la primavera essere lontana?”.
(1) “Questa poesia fu concepita e principalmente scritta in un bosco che fiancheggia l’Arno, vicino Firenze, in un giorno quando il vento forte, la cui temperatura è al contempo mite ed agitata, raccoglieva le nuvole che scatenano le piogge autunnali. Queste iniziarono, come avevo previsto, al tramonto con una violenta tempesta di grandine e pioggia, annunciato da un magnifico tuono ed un lampo, tipico delle regioni cisalpine” (traduzione di Corinzia Monforte).

“Halloween” di Robert Burns

Nel poemetto propriamente intitolato “Halloween” (1785), Robert Burns racconta e celebra nel contempo l’apoteosi della superstizione celtica.
Questa lunga poesia che risulta ostica al lettore straniero per la straordinaria ricchezza di riferimenti folklorici, nonché per la lingua stessa del poeta nazionale scozzese, é un leit-motiv mentale del mondo britannico, parallelamente a quanto accade negli Stati Uniti per l’analogo poemetto “Il Corvo” di E.A. Poe che come il suo corrispondente celtico viene letto nella famosa notte delle streghe.
Ma l’importanza di “Halloween”, sta ben oltre la sua popolarità presso il mondo britannico e risiede piuttosto nel merito di avere esportato in Inghilterra i più comuni miti e leggende legati alla nota festività attraverso un’influenza letteraria e culturale che si rispecchia in usanze come quella dei falò, del travestimento (dei bambini in Scozia e degli adulti in Inghilterra) o di quella forma di divinazione attraverso rituali non verbali che consentirebbe alle ragazze di vedere il futuro marito.
Ed ancora nella poesia di Burns c’è molto più di tutto questo. Il bardo scozzese descrive la notte del 31 Ottobre in una dimensione del tutto nuova rispetto a quella della tradizione più antica che avrebbe voluto che la notte di Halloween fosse una intermezzo di paura tra la vita e la morte.
“Halloween” di contro ha poco di horror e molto di giocoso, burlesco, allegro, quasi ad esorcizzare ogni forma di paura.
La nostra triste festa dei morti, che secondo l’antico folklore celtico avrebbe dovuto essere quella di spiriti, demoni, streghe ed anime in pena, diventa dall’età vittoriana in poi (periodo di massima diffusione del poemetto) un carnevale. Una notte di risate, di scherzi, di feste e di allegre scorribande, lontano dal terrore. In una dimensione che appartiene solamente alla vita.

L'elegia democratica di Thomas Gray

Nell’”Elegia Scritta in un Cimitero di Campagna” (1), la voce poetica di Thomas Gray si trova inizialmente a descrivere un paesaggio rurale per poi soffermarsi su un cimitero e sulle tombe della povera gente lì seppellita.
Il componimento, “pezzo” principale della poesia sepolcrale, è famoso per aver ispirato “I Sepolcri” di Ugo Foscolo che, conoscitore della letteratura inglese, ha tratto per antitesi da qui l’ispirazione del suo capolavoro.
Laddove infatti il Cimitero di campagna ospita le spoglie degli umili e dei dimenticati, Foscolo invece parla di quei morti che costituiscono l’altra parte dell’umanità: i “forti” , coloro che sono ricordati dai posteri per le opere da loro compiute, e le cui tombe sono necessarie per tenerne viva la memoria.
Nel cimitero di campagna inglese invece si respira tutta un’altra aria, ben diversa da quella di Santa Croce: più popolare, più democratica dove tutti sono uguali di fronte alla morte. E, come rileva il poeta, coloro che apparentemente non furono dotati di alcun talento avrebbero potuto compiere grandi cose se solo fossero nati in circostanze diverse.
Ma Grandezza ed Ambizione -rigorosamente scritti con la lettera maiuscola quasi la personificazione volesse rimarcare l’importanza che i vivi danno a tali valori- pur non essendo mai appartenuti a questi poveri defunti non ha nondimeno intaccato il valore delle loro vite perché:
“Il vanto di un casato illustre, la pompa del potere,
e tutta la bellezza, tutta la ricchezza che mai sia data,
attende allo stesso modo l’ora inevitabile:
i sentieri della gloria non portano che alla tomba”.
(1)
C’è una sorta di senso di uguaglianza universale in questa elegia che fa ritrovare in un unico luogo l’intero mondo della natura con i suoi suoni, i suoi colori, i movimenti della vita che avvolgono ogni cosa, come a voler dire che tutto è destinato allo stesso fine. Il Giorno diviene sera, il cicaleccio degli insetti diventa quiete profonda, l’aratore torna stancamente a casa per riposare. Tutti attesi da un medesimo fine: la calma finale.
Con un effetto di spegnimento, il tono basso e il ritmo lento, l’elegia si conclude con un epitaffio attraverso cui il poeta ricorda un giovane amico perduto che gli ha ispirato dell’elegia. E la tristezza si fa struggente nostalgia ed il ricordo diventa rimpianto.
(1) Titolo originale: Elegy Written in a Country Churchyard.
(2)“The boast of heraldry, the pomp of power, /And all that beauty, all that wealth e’er gave,
Awaits alike the inevitable hour:/ The paths of glory lead but to the grave”.

Robert Frost

Nessun poeta é più emblematicamente americano di Robert Frost. Da “The Road Not Taken” fino a “ “Stopping by Woods on a Snowy Evening”, Frost ridisegna i contorni della poesia moderna.
T. S. Eliot lo definì “il più eminente e il più distinto poeta anglo-americano vivente”, e di certo Frost è l’unico poeta della storia che abbia ricevuto il premio Pulitzer.
La poesia di Frost, ambientata in un territorio americano rurale quasi ancestrale, racconta di fatti e oggetti quotidiani che nel parlare del poeta diventano metafore di idee e sentimenti molto complessi.
Le emozioni più profonde e le relazioni umane (“The Road Not Taken”) o il significato delle esperienze (“The Tuft of Flowers”) sono in queste poesie pause semantiche anteposte al caos della vita:
“Poetry is a momentary stay against confusion” (1).
Che suonano come le più assolute verità ogni oltre apparenza.
(1) “La poesia è la momentanea stasi di fronte al caos”

Oliver Goldsmith

Oliver Goldsmith (1728-1774) fu un poeta, romanziere e drammaturgo che nacque in Irlanda, come tanti grandi della letteratura inglese e studiò al Trinity College di Dublino. Goldsmith è l’autore di “The Citizen of the World”, (“Il Cittadino del Mondo”) , una raccolta di stravaganti saggi che da medico di borgata quale era, gli guadagnarono la fama di scrittore.
Ma la prima opera che fece di Godsmith un poeta è “The Traveller” (“Il Viaggiatore”) dove l’autore racconta il suo Grand Tour, il classico viaggio per l’Europa che i giovanotti inglesi benestanti si concedevano una volta finiti gli studi per ampliare i propri orizzonti culturali. L’altra opera poetica è “The Desert Village”, una raccolta che idealizza il villaggio dove il Goldsmith trascorse l’ infanzia. Entrambe le opere sono scritte in couplet, il distico tipico della poesia classica inglese, lo stesso usato da Pope e Dryden.
Ma nonostante l’epoca in cui visse Goldsmith non può dirsi veramente poeta neoclassico.
Secondo per grandezza solo a Pope, secondo la classificazioni di quell’opinionista del Settecento inglese che fu Samuel Johnson, Oliver Godlsmith supera i limiti della forma fino a toccare l’animo di chi legge come la poesia romantica sa fare.
The Traveller” è infatti una raccolta di poesie sentimentali che prendono il lettore per la fluenza di uno stile che pur mantenendone la forma supera decisamente i canoni classici.
Goldsmith forse non fu grandissimo come altri suoi conterranei, ma di certo aveva afferrato l’importanza della scrittura e soprattutto dell’originalità.
Dispregiatore dello scrivere comune da lui definito “volgare”, sapeva che andare controcorrente costa sia in termini di coraggio che per il rischio di non essere compresi perché
“La mente che ama se stessa, scriverà e penserà in maniera volgare, ma la grande mente sarà arditamente eccentrica, e disprezzerà la strada battuta, lontana dalla benevolenza universale” (1).
(1) “The little mind who loves itself, will wr’te and think with the vulgar; but the great mind will be bravely eccentric, and scorn the beaten road, from universal benevolence”.

Il gusto vittoriano

Il mondo contemporaneo guarda al mondo vittoriano come ad un periodo ipocrita, filisteo, represso. Niente di sbagliato in questo. Guardando gli antichi palazzi vittoriani si possono vedere gli uomini che lì hanno vissuto. La compostezza, la severità, ma anche la volgarità di un’architettura tutta uguale, monotona, conformista non lascia ombra di dubbio su che tipi fossero i vittoriani.
Che cosa piaceva ai Vittoriani? Che tipo di arredamento, argenterie, ninnoli, carta da parati, compravano per le loro case?
Innanzi tutto c’è da dire che il periodo Vittoriano abbraccia quasi un secolo, dato che inizia nel 1830 e termina nel 1903. I gusti in questi settant’anni quindi spaziano dal gusto gotico e medievale dell’inizio del periodo che si riflette nell’architettura e nel design, a quello seguente più tipicamente “vittoriano”, cioè ingombrante, austero, triste. Poi dal 1880 alla fine dell’età si ha una certa reazione a questo stile attraverso movimenti quali l’Estetismo, l’Art Nouveau, il Giapponesismo, l’Art and Craft, il Rinascimento Celtico, l’Art Deco e lo stile Liberty che troveranno la massima esplosione negli anni ’30 e ‘40. Ecco perché se si parla di gusto Vittoriano si rischia di essere vaghi e generici.
Inoltre bisogna considerare che questo cosiddetto “gusto vittoriano” era il risultato oltre che della classe sociale anche dello status economico. Cosicché dato che i nobili non avrebbero mai abbandonato gli antichi mobili di famiglia elisabettiani o settecenteschi a meno che non fossero fortemente inclini a ciò che allora risultava di tendenza, era la borghesia ad arredare le proprie case in stile vittoriano. La classe operaia, infatti, i poveri e i disoccupati, che costituivano tra l’altro più della metà della popolazione, avevano o non avevano appena il necessario per vivere, erano dunque ben lungi dal seguire le mode.

Un romanzo di Harlem: "I loro occhi guardavano Dio"

 

“Their Eyes Were Watching God” del 1937, di Zora Neale Hurston si inquadra nel Rinascimento di Harlem , il movimento letterario americano caratterizzato da temi quali l’alienazione e l’emarginazione dell’indiviuo, che vide come protagonisti scrittori come Langston Hughes, Zora Neale Hurston, W.E.B. DuBois, Countee Cullen, Angelina Grimke e Jean Toomer.
Il romanzo racconta della prima giovane vita di Janie Crawford con sua nonna, attraverso un realismo tendente a mitizzare le tradizioni della gente nera del sud degli Stati Uniti che l’autrice sembra aver studiato attentamente dal punto di vista antropologico.
“I loro occhi guardavano Dio” è stato quasi ignorato dalla storia della letteratura americana dalla data di pubblicazione fino agli anni ‘70 per via di una certa inadeguata durezza critica imputata alla Hurston nei confronti delle problematiche riguardanti il modo un cui i bianchi trattavano i neri nel Sud degli States. Il romanzo infatti dipinge la vita di questa gente in maniera un po’ troppo rosea, omettendo di accusare le angherie e i soprusi che questa ha dovuto subire.
Mancava dunque, seconda certa critica, un vero supporto tematico, un messaggio da indirizzare attraverso il racconto che invece sembrò sfruttare le figure dei protagonisti aldilà di un vero e proprio scopo se non quello narrativo.
Ma un romanzo non deve essere per forza latore di una specifica tesi che recapiti al lettore determinati messaggi; per essere apprezzato basta che all’interno dell’impalcatura narrativa si possano riscontrare idee, punti di vista, opinioni il più delle volte specchio delle convenzioni di chi scrive.
E le idee portanti riscontrabili in quest’opera sono più di una e vanno oltre la problematica politico-sociale abbracciando posizioni incentrate intorno all’individuo e non solo.
“I loro occhi guardavano Dio” suona come un’aspra critica nei confronti dei falsi valori del consumismo tendenti a valutare le persone in base a ciò che possiedono, o nel riconoscimento della sfera sessuale come forza naturale che va rigorosamente separata dall’ambito sociale.
C’è la denuncia al sessismo della società moderna, e l’affermazione dell’autonomia del potere nero in un quadro -quello dell’ apartheid americana del dopoguerra- dove la Hurston provocatoriamente contrappone tutto ciò che è nero in termini positivi rispetto al “male” bianco.
Non si tratta di un romanzo a tesi quindi, ma di certo è un’opera che, anche se palesemente apolitica e vistosamente pittoresca, accusa certi modi di vita dell’America di mezzo secolo fa.
Non a caso Zora Neale Hurston, che visse poveramente e fu clamorosamente dimenticata subito dopo la sua morte, potè a ben diritto essere definita “il genio del Sud”.

L'autunno di George Eliot

George Eliot (pseudonimo di Mary Ann Evans, 1819-1880) , una delle figure più discusse del suo tempo e per questo la meno vittoriana dei vittoriani, amava parlare di amore e dovere, di amore per il dovere, di ambizioni di donne a cui i tempi non consentivano ambizioni, di religione e relazioni tra gli individui e tra i sessi.
Scrisse romanzi ambientati in un’Inghilterra rurale preindustriale intessuti di nostalgia e moralismo, lei che era stata ostracizzata per le sue originali scelte di vita.
Innamorata dei colori forti e dei paesaggi malinconici, George Eliot sull’autunno scrisse:
“Delizioso autunno! Perfino la mia anima ti é devota, e se io fossi un uccello volerei sulla terra in cerca di autunni consecutivi” (1) .
(1) Delicious autumn! My very soul is wedded to it, and if I were a bird I would fly about the earth seeking the successive autumns.

Arte e Bellezza



Arte e bellezza sono da sempre state alleate inseparabili di un modo di espressione e di ricerca che ha posto come problema ontologico la propria definizione senza mai giungere a definizioni definitive. Nel Rinascimento e nella concezione neoclassica, arte e bellezza significavano misura, armonia ed adeguatezza. L’arte doveva imitare la natura e rimanere soggetta a determinati ideali estetici per cui l’artista aveva il compito di esprimere la bellezza della natura attraverso le sue creazioni sì da renderla eterna e salvarla dal mortifero flusso del tempo. Ne sono un esempio i sonetti di Shakespeare.
Nel Seicento però la bellezza si fa manierista, diventa immagine di arzigogoli mentali, stravaganza, ricerca esasperata di originalità ed ancor più eccesso, mostruosità. L’arte deve essere espressione libera anche del brutto, di concettismi bizzarri, immagine delle strane vie della mente.
Le eterne idee di bellezza ed arte dunque procedono in un going di contrari contrastanti di secolo in secolo e al pazzo Seicento segue il morigerato Diciottesimo Secolo che mentre da una parte torna indietro agli ideali classici, dall’altra accoglie in sé le teorie di Burke e del suo Sublime che guardavano alle intemperanze della natura come ad una fonte di stupore e bellezza da cui la vera arte avrebbe dovuto assurgere.
Da qui all’idea romantica di bellezza come di frutto dell’ispirazione delle innate capacità del genio, e della sua feconda immaginazione il passo è breve. L’animo dell’artista che si rispecchia nella natura diventa paradigma dell’umanità, la sua immaginazione creatrice lo rende un demiurgo, un dio sulla terra, profeta di bellezza e di valori universali.
“Fa di me la tua lira, perfino come lo é la foresta:
che importa se le mie foglie cadranno come le sue!
Il tumulto delle tue potenti armonie
Assumeranno per entrambi un profondo tono autunnale,
dolce anche se triste. Sii tu, feroce spirito,
il mio spirito! Sii tu me, uno impetuoso!
Conduci i miei morti pensieri per l’universo
come foglie avvizzite a risvegliare una nuova rinascita!
E, per incanto di questo verso,
Spargi, come da un focolare inestinto
cenere e lapilli, le mie parole tra l’umanità!
Sii attraverso le mie labbra per risvegliare la terra addormentata
La tromba di una profezia!”
La funzione morale dell’artista svanisce del tutto con l’Estetismo, fondamentale movimento assertore del concetto dell’arte per l’arte. L’arte non solo basta a se stessa in quanto non ha bisogno di null’altro per essere ispirata e per esistere, ma –come egregiamente asseriva Oscar Wilde- non deve servire a niente, non deve perseguire alcun ideale se non quello della bellezza. Altro che fini didattici, letteratura didascalica e letteratura socialmente impegnata: l’artista decadente è uno snob, uno che si compiace della propria diversità e si isola volontariamente dal resto dell’umanità.
Il resto del mondo è mediocre e brutto, il bello è in sé. L’artista gloriandosi dei propri atteggiamenti ed assaporando ogni sensazione per sentirne ed esprimerne la bellezza è un emarginato di lusso che si compiace delle proprie morbosità. Al limite delle perversione, contro ogni normalità.

La Poesia secondo i Romantici

La poesia nasce dall’Immaginazione, come ogni forma di creatività, come l’arte. Di questo ne erano fortemente coscienti i poeti romantici che specularono a lungo sull’idea di poesia, su che cosa fosse, da dove provenisse. La loro era una sorta di idea fissa legata a questo sapere ontologico, dovuta alla sovrastima che avevano di se stessi e della loro missione nel mondo. L’Immaginazione era il tratto distintivo della loro superiorità.
Secondo William Blake l’Immaginazione è il mondo dell’Eternità rispetto a cui il mondo sensibile -contrariamente ad ogni credo materialista- è un mero illusorio riflesso, un nulla alla portata di tutti, laddove il mondo dell’Immaginazione è appannaggio del poeta.
Per Wordsworth l’immaginazione è il tocco di colore che il poeta aggiunge nel processo creativo all’emozione. La poesia é lo spontaneo scorrere di sentimenti potenti che però non vanno colti estemporaneamente nella loro manifesta intensità, ma vengono recuperati nella tranquillità del proprio guscio domestico quando l’emozione cede il posto ad una gioia più calma che è nello spirito della poesia.
Coleridge invece ha un’idea più complessa di Immaginazione e la suddivide in “primaria” e “secondaria”. La prima è la mente umana che nel suo esistere crea incessantemente e coesiste nella volontà cosciente. La seconda invece differisce dalla prima solo per intensità e per la sua maniera diversa di agire. Infatti il suo scopo è la creazione poetica e per questo l’Immaginazione Secondaria idealizza ed unifica i dati reali.
A queste due forme di Immaginazione Coleridge aggiunge poi la Fantasia, una sorta di memoria aldilà di spazio e tempo che mossa dai dati empirici e dalla volontà dell’individuo si lega alle leggi dell’associazione.
Percy Bysshe Shelley scrive una vera e propria “Difesa della Poesia” di cui rivendica il potere divino, come “centro e circonferenza” dell’intero sapere umano. Al contrario della scienza infatti che si limita al ragionamento, la poesia non solo scorge il presente così come esso è ma intravede attraverso le parole del poeta il futuro, l’eterno e l’infinito.
Keats infine nega e afferma la poesia come entità, in quanto questa é se stessa senza essere se stessa. La poesia cioè non ha una vera identità in quanto è tutto e niente, gode di luce ed ombra, vive nel piacere di chi legge. E il poeta è la meno poetica di tutte le creature, perché nutrendo le menti altrui e regalando se stesso, finisce col perdere il sé

I "Pensieri Notturni" di Edward Young

Night Thoughts”, il poema elegiaco edificante scritto da Edward Young, fa parte della cosiddetta poesia sepolcrale inglese che tanta influenza ebbe in Europa e soprattutto in Italia per via del Foscolo.
L’opera il cui sottotitolo, “Meditazioni sulle vicende della vita, sulla morte e sull’immortalità” ne esplicita già i contenuti in ben 10.000 versi, col tono del sermone racconta di varie disgrazie private dando l’avvio a quella tendenza all’autobiografismo che sarà tipica dei Romantici.
Intenzione del poeta era riflettere sulle esperienze ed il destino dell’uomo attraverso il tema religioso secondo un tipo di soggettivismo che si farà pioniere del sentimentalismo romantico.
Ma la sensibilità di Edward Young è ancora un po’ distante da quella dei Romantici.
I “Pensieri Notturni” di Young sono bui, tetri, lugubri, ripiegati sulla morte presenza costante dei versi:
“La vita è deserto, la vita è solitudine, la morte ci unisce alla grande maggioranza”.
La morte é compagna di vita e nella sua negatività diventa sempre elemento positivo in quanto non solo unisce ma rende perfino migliori:

Gli uomini possono vivere da scemi, ma da scemi non possono morire”.
Ed è ricorrente, ossessiva e costantemente associata ad un’ immagine delle tenebre che le dà un aura quasi satanica tra sacro e horror. Il Cristianesimo di Young allora si offusca, si incupisce, e le frasi proverbiali finiscono col rimbombare in un’atmosfera in cui risiede un’immagine negativa di Dio:
“Un Dio tutto misericordia è un Dio ingiusto”
Edward Young rischia così di apparire un Marylin Menson del suo tempo travestito da predicatore.
Eppure un giudizio del genere prescinde da ogni conoscenza biografica dell’autore che nella sua vita dovette attraversare in un tempo relativamente breve diversi e gravi lutti –dalla morte della figliastra a quella del genero e della moglie- che lo hanno sicuramente portato a cercare di trovare un senso alle vicissitudini reali.
Ecco spiegato dunque questo fosco perenne presentimento della morte, la persistente visione del nero, la triste consapevolezza che qualunque cosa terrena non vale niente.
(1) “Life is the desert, life the solitude, death joins us to the great majority”.
(2) “Men may live fools, but fools they cannot die”.
(3) “A God all mercy is a God unjust”.

L'Era del "Grande Fratello"

Pochi libri nella storia della letteratura sono stati in grado di presagire -anche se non negli identici termini e modi, per lo meno nell’intuizionedi quello che sarebbe stata la vita moderna - meglio di “1984”, il celebre romanzo distopico di Eric Arthur Blair, alias Gorge Orwell.
Dalle telecamere che ci spiano per le strade, alle intercettazioni telefoniche e tutto quanto compromette la privacy che tuttavia può essere ritenuta sacra solo finché il comportamento del soggetto risulta lecito, in quest’era irrazionale, dove il “Grande Politico” riesce a convincere un intero popolo che 1+ 1 fa tre e la libertà viene osannata da chi la toglie o la confonde con la propria , in questa Italia dove il “Grande Fratello” in questione è un dio sulla terra la cui onnipotenza abbraccia ogni aspetto del viver civile, niente risulta più lungimirante del capolavoro di Orwell.
In “1984”, di fatto scritto nel 1948, il Grande Fratello è infatti idolatrato da un popolo che pur non avendolo mai conosciuto, ciecamente crede nella sua ineffabile persona. Paralellamente in un Regno Unito divenuto però parte dell’Oceania dove è ambientato il romanzo, non è consentito avere opinioni discordanti da quelle del regime, è vietato perfino scrivere, e non si possono contraddire le affermazioni di chi detiene il potere. Le autorità controllano il comportamento di ogni cittadino, perfino nel pensiero e nulla può sfuggire allo sguardo di uno stato che punisce chiunque pensi liberamente e in modo non conforme all’autorità.
Colpisce come nel romanzo Orwell non si riferisca mai al “Grande Fratello” col suo vero nome, e che in tutta l’ Oceania nessuno sappia chi sia veramente il Grande Fratello.
Eppure non importa che questi sia un vero individuo, ciò che conta è che di lui la gente abbia un’immagine ideale che è poi quella che il Partito, in termini attuali traducibile con il Potere, vuole che di lui il popolo abbia, e che per questa quasi astratta persona si nutrano sentimenti di amore, rispetto e paura proprio come si fa nei confronti di un dio.
Nell’attuale cultura però, per “Grande Fratello” non si intende più solo il personaggio orwelliano, quanto piuttosto il celebre format televisivo iniziato nel 2000 come esperimento sociale che si compiace di osservare il comportamento di concorrenti 24 ore su 24. Da questa premessa sperimentale la trasmissione televisiva è degenerata negli ultimi anni in una morbosa ricerca ed istigazione dei tipi umani in oggetto a comportamenti rissosi, ambivalenti, estremi e sessualmente “particolari” , finendo col proporsi a chi la osserva come modello di vita reale, “normale”, e quindi da emulare.
L’esperimento televisivo non ha quindi nulla della valenza politica del romanzo originale. Eppure non per questo può del tutto essere dissociato dalla politica. Lo si può fare infatti da un’angolatura diametralmente opposta: basta identificare il Grande Fratello di Orwell (cioè l’attuale politica) come un’altra stanza del “Grande Fratello” della TV, in un’ottica dove non è the Big Brother che guarda il popolo, ma è il popolo che guarda the Big Brother. E come per il format televisivo, lo trova rissoso, ambivalente, estremo, sessualmente “particolare” . E può prenderlo come modello.

Cime Tempestose

Le fonti ispiratrici di Wuthering Heights, il capolavoro di Emily Brontë (1818-1848), in Italia noto come “Cime tempestose” e divulgato attraverso diverse versioni cinematografiche, possono essere ritrovate nella moda del romanzo gotico e nel romanticismo del sentire di alcuni personaggi, in special modo, il personaggio di Heathcliff che tanto ci ricorda l’eroe byroniano.
Wuthering Heights, pubblicato a proprie spese un anno prima della morte dell’autrice non ebbe un successo immediato. Fu considerato troppo violento, morboso ed immorale dal pubblico vittoriano che riteneva che la premessa di un romanzo dovesse essere di stampo morale, e che temeva di vedere svelate apertamente le proprie segrete e ipocrite passioni in un libro.
“ Cime tempestose” è la storia dell’amore violento e appassionato di Catherine e Heathcliff e della vendetta di quest’ultimo quando lei sposa un altro. Di fatto è una storia senza eroi, anzi la storia di due antieroi come diventerà prerogativa della letteratura del Novecento, e questo è uno dei motivi per cui chi conosce la letteratura non può che amare questo libro, laddove chi invece la sconosce può ritenerlo semplicemente un polpettone.
Catherine è un personaggio molto complesso, proprio come un personaggio moderno: lontano dalle caratterizzazioni tipiche ed immutabili dei romanzi previttoriani ed al contrario ricca di contraddizioni che invece la rendono del tutto umana. Catherine come tutte le persone vere non è ne’ buona ne’ cattiva, e lo stesso può dirsi della sua controparte Heathcliff.
Catherine è piuttosto capricciosa, egoista, a tratti ingenua, un amante appassionata ma anche una persona che sceglie di vivere come le sembra più conveniente, contravvenendo ai dettami dell’amore, rinunciando perfino al vero amore in cambio di una vita comoda ed agiata.
Questo è infatti il più grave peccato che si commette in questo romanzo: il tradimento dell’amore per un tornaconto che non condurrà ad alcuna felicità. Catherine infatti sceglie di sposare Linton a causa dell’indigente situazione di Heathcliff, arrivando perfino a pensare di poterlo aiutare economicamente con i soldi del futuro marito, giustificando la sua scelta immorale con delle vuote, romantiche parole secondo cui il suo amore per Heathcliff è intrinseco al suo essere a prescindere da ogni scelta di vita che può separarla da lui.
Heathcliff, dal canto suo, personaggio profondamente ancorato al romanticismo, è un ribelle, un violento uno che si vendica di tutte le angherie subite da bambino a causa delle sue umili origini, che si innamora follemente di Catherine, cresciuta nella sua stessa casa ma con un’educazione diversa e un trattamento diverso da chi invece era soltanto un trovatello. Il suo stesso nome richiama al caldo e alla roccia come ad evocare la passione ed il luogo in cui la passione ha luogo: Wuthering Heights, Cime Tempestose si chiama la contrada che romanticamente è un tutt’uno con l’indole e le azioni dei personaggi.
Oltre tutto questo c’è un altro aspetto del romanzo che lo rende straordinariamente moderno: ed è il punto di vista fluttuante che fa sì che la storia venga narrata da persone diverse secondo angolazioni ora interne ora esterne rispetto al luogo dove le azioni si sono svolte e che procede avanti ed indietro nel tempo lungi da una diacronia che era stata tipica dei romanzi fino ad allora.

I simboli di Yeats

Il simbolismo di W. B. Yeats ha una connotazione ontologica più che formale. I simboli di Yeats non sono gli abiti delle parole miranti a celare e a svelare contemporaneamente i pensieri del poeta, ma sono immagini che tacciono e mostrano nello stesso tempo la realtà nell’individuo.
Il mondo di Yeats è fatto di episodi, cose, immagini pregnanti di un significato che va oltre la sua performance oggettiva. Secondo Yeats il mistero, insito nella vita umana, si manifesta attraverso simboli che l’individuo non facilmente riesce a decifrare.
Da sempre attratto dalle dottrine mistiche, Yeats si era fin da giovane interessato del mondo occulto e aveva sposato una medium che lo aveva introdotto alla pratica della lettura medianica esasperando così la sua ricerca di contatto con il mondo ultramateriale. Ma il suo interesse per l’occultismo puntava alla poesia, da lui considerata come una specie di religione rivelata dalle parole del poeta.
Yeats era profondamente convinto che ogni cosa che si presenta all’occhio umano abbia un significato al di là della sua sfera oggettiva. Così il salmone non è soltanto un pesce, una rosa non è soltanto un fiore, la danza non è soltanto una forma di espressione artistica.
Allora il nuoto è l’erotismo, il cigno è simbolo della soggettività estrema e dell’introversione, la luna (come per Shelley ) rappresenta la stanchezza, la saggezza è la proprietà dei morti, l’arte è l’eternità e come l’eternità è un artificio dell’uomo, la danza è il divenire, l’acqua è la bellezza che svanisce, la foresta è la saggezza occulta.
La cultura dell’umanità dall’Occidente all’Oriente, dalla mitologia greca alla Bibbia, da Virgilio a Sofocle, a Blake, al Neoplatonismo, all’India si ritrova in Yeats.
Ogni parola è un’allusione, ogni verso è un enigma, ogni poesia è un arsenale di immagini da disinnescare per farne venir fuori il senso. Senza questa operazione Yeats rimane oscuro e può non essere amato, come chi non è compreso.
Eppure pochi poeti risultano spontanei quanto lui. E Yeats riesce ad affascinare anche senza che se ne abbracci il senso. Come certe canzoni in lingua straniera che piacciono al di là del significato.

La nascita del giornalismo moderno

Il ‘700 inglese vede la nascita del giornalismo nel senso moderno del termine. Nel 1711 dopo il successo del periodico “The Tatler”, Richard Steele e Joseph Addison fondano “The Specator”, un quotidiano il cui scopo era “animare la morale con l’umorismo, e temperare l’umorismo con la morale, […] portare la filosofia fuori dal chiuso di biblioteche, scuole e college, e farla risiedere nei club, nelle riunioni, intorno ai tavoli da tè, e nelle coffee house”.
Insieme a valori come famiglia e matrimonio predicati come precetti del viver sociale “The Spectator” divulga i credo filosofici caratteristici dell’Illuminismo rendendo popolare quella cultura fino ad allora considerata patrimonio di una elìte, e rinnovando radicalmente l’abitudine alla lettura.
Secondo i diktat di Mr Spectator (personaggio fittizio che si fa portavoce dei contenuti del giornale) un buon inglese non sarebbe mai dovuto uscire la mattina senza aver letto qualcosa dello “Spectator” e avrebbe dovuto considerare questo giornale come parte dell’occorrente per il classico rito del tè delle cinque. Il buon inglese aveva il dovere morale di aggiornarsi, di istruirsi e di farsi delle opinioni e in questo “The Spectator” fu l’antesignano del moderno “opinionismo”.
Con i suoi argomenti di estetica, letteratura, lifestyle che insieme alle notizie, erano il nutrimento necessario del buon borghese del ‘700 , “The Spectator” riscosse un successo talmente ampio che si stimò fosse letto da ben il 10% dei Londinesi, percentuale altissima se si considera il tasso di analfabetismo del resto d’Europa.
Ma l’importanza dello Spectator non si limita però solo al valore storico. I saggi di Addison sono oggi considerati capolavori senza tempo per l’eleganza classica della forma e per certe idee libertarie squisitamente moderne.
Per non parlare poi dei numerosi aforismi che ci fanno osservare che la vita nella sua entità non appartiene a nessun secolo:
“ Le cose essenziali per essere felici in questa vita sono: qualcosa da fare, qualcosa da amare, e qualcosa in cui sperare” (1)
(1) “The great essentials for happiness in this life are something to do, something to love and something to hope for.”

Il pudore della scrittura in D. J. Salinger


 

La fine dell’innocenza, la mascolinità della società moderna, l’idea della letteratura come stile di vita, i temi preferiti di Salinger potrebbero trovarsi altrove sotto altre forme, attraverso altri personaggi che non hanno mai potuto vedere la luce.

 The Catcher in The Rye”, in Italia noto come “Il Giovane Holden” il romanzo   che  ha segnato un’intera generazione di americani, riveste un’importanza che è più culturale,  che prettamente artistico-letteraria.

Presente spiritualmente perfino in alcuni famosi omicidi del secolo scorso –l’assassino di John Lennon ebbe a dire che la spiegazione del suo gesto si trova tra le pagine di quel romanzo- “The Catcher in the Rye” viene studiato nelle high school statunitensi e tuttora continua a vendere migliaia di copie ogni giorno.

D.J. Salinger, figura schiva della letteratura contemporanea e oramai miticamente misteriosa, oltre questo non ha pubblicato nessun altro romanzo. Solo qualche racconto. “Pubblicato” non “scritto”. Perché dopo “The Cather in the Rye”, mentre il pubblico di lettori aspettava l’opera successiva, Salinger ebbe a dire: “Amo scrivere, e vi assicuro che lo faccio regolarmente, ma lo faccio per me stesso, per il mio piacere. E voglio essere lasciato solo a farlo.”

Ci si chiede se “Il giovane Holden” non nasconda un seguito e se altri romanzi non si trovino tra gli scritti di questa figura letteraria che sembra aver giganteggiato anche nell’assenza, se non esista un qualche altro personaggio che ci racconti del suo autore proprio come aveva fatto il giovane Holden.

La fine dell’innocenza, la mascolinità della società moderna, l’idea della letteratura come stile di vita, i temi preferiti di Salinger potrebbero trovarsi altrove sotto altre forme, attraverso altri personaggi che non hanno mai potuto vedere la luce.

Potrebbero esserci delle creature sotterrate tra le carte di Salinger nella casa dove oramai lui non c’è più, o potrebbero essere in qualche file, salvati da qualche parte.

O forse invece sono tutti già morti con lui, distrutti dal loro stesso autore, per quella sorta di pudore di scoprirsi come se le parole potessero svestire l’anima, per quello stesso senso di pudicizia che ha portato D. J. Salinger a voler negare di avere, affermare di non avere nulla, nella propria reale persona, del giovane Holden.

 

Il Modernismo di Tristram Shandy.




La Vita e le Opinioni  di Tristram Shandy”,  di Lawrence Sterne, è un “antiromanzo” senza un chiaro inizio, senza sviluppo ne’ finale che  rinnega la trama  e racconta le opinioni e la vita interiore del protagonista. Nessuna  sequenza lineare cronologica ma solo argomenti di discussione che attraverso digressioni e  sbalzi temporali  diventano narrazione.
Sterne libera il   romanzo delle sue peculiari caratteristiche e convenzioni appena  sviluppate dai   padri del neonato genere letterairio quali erano stati  Defoe, Richardson e Fielding, basando il racconto su una metafiction che sostituisce l’oggettiva verosimiglianza con la   verità soggettiva. Tristram,  autore implicito e narratore, riflette esplicitamente  all’interno del romanzo sul processo creativo e sul divario tra le parole e le cose, tra l’arte e la vita.
Tristram è uno scrittore che commenta costantemente il suo ruolo. E’ l’autore che entra a pieno titolo nel testo, commenta il suo stato di personaggio del libro, parla di se stesso e si riferisce al suo stile, alle sue intenzioni o perfino al tempo che ha impiegato per scrivere una pagina. Tristram   perfino sostiene il futuro successo  della sua opera grazie alle innovative tecniche adottate,  in un rapporto diretto col lettore, a tu per tu, che rende  quest’ultimo non solo partecipe della storia, ma parte integrante, personaggio di questa.
Ma se Tristram Shandy è Lawrence Sterne, Lawrence Sterne non è solo Tristram Shandy. Perché Tristram, secondo  un assioma vagamente decadente che lega la vita all’arte, insiste sul fatto che il suo triplice ruolo (personaggio, autore o narratore), esiste solo all’interno del romanzo,  che la sua vita è dentro quel libro, e vivere è scrivere.