Un viaggiatore del tempo che si trovasse ad assistere alle
tragedie greche per poi catapultarsi nell’Inghilterra dei Tudor rimarrebbe
impressionato dalla fondamentale diversità dei due tipi di rappresentazioni
sceniche.
Colpisce in primo luogo la modalità di presentazione del
tempo da parte del dramma shakespeariano rispetto alla tragedia greca. Nel
mondo antico infatti l’opera iniziava in medias
res, cioè a fatti già accaduti, e i personaggi tragici non dovevano che
raccontare, spiegare il motivo del loro dolore; Shakespeare invece, in un
fluire diacronico, lascia che sia lo spettatore ad assistere a ciò che accade.
Fatto impensabile e assurdo secondo la logica pseudo-aristotelica che
pretendeva l’unità di tempo, di azione e di luogo.
Il dramma classico infatti poneva la sua enfasi sugli
effetti delle azioni umane, sulla tragicità intrinseca e sofferta dei
personaggi, piuttosto che sul racconto dei fatti. La catarsi era il fine, e a
tale scopo era necessaria l’immedesimazione. Questa era la giustificazione
connessa al richiamo alle regole.
Ma Shakespeare va oltre questa disubbidienza. E rompendo
anche con la netta, classica distinzione tra dramma, tragedia e commedia si fa
demiurgo di opere che insieme alla commozione regalano il sorriso. Proprio ad
imitazione della vita stessa dove la gioia si mescola al dolore ed il riso al
pianto, i personaggi shakespeariani, fuoriuscendo dai modelli, diventano umani:
maschere tra gli uomini, uomini che solo indossano una maschera.
E la tragedia classica, un tempo proiezione di emozioni,
cede il passo al dramma elisabettiano che è specchio della vita; ed il teatro,
come recitava l’iscrizione sul “Globe Theatre” di proprietà di William
Shakespeare non è che il mondo. Perché
"Totus mundus agit histrionem” (1)
(1) Tutto il mondo
recita una parte.
Riferimenti bibliografici:
G. Baldini, Manualetto shakespeariano, Einaudi, 2001.
C. Segre, Teatro e romanzo, Einaudi, 1984.
W. Shakespeare, Tutte le opere, Sansoni, 1964.
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