Orientalista
per antonomasia è il Kubla Khan che, come lo stesso poeta
scrive in una nota, non è che un sogno
non portato a termine a causa
dell’inopportuna interruzione da parte di un visitatore. La nota più che raccontare la genesi
dell’opera sembra sottolineare quanto
stridente sia il contrasto tra il
quotidiano che bussa alla porta e la realtà onirica che rimanda a paesi lontani
e quindi irreali.
Coleridge
cerca di evocare l’alterità di questo mondo lontano dall’esistenza e lì vuole
portare emozionalmente i propri lettori.
A tal fine usa nomi dai suoni strani, stanze irregolari, effetti sonori
roboanti.
L’esotico
per Coleridge é molto più del capriccioso
desiderio di evasione di una generazione inficiata di ideologie
colonialistiche. Così come il gotico, l’esotico è per Coleridge un bisogno
immanente della mente, qualcosa di intimamente connesso al desiderio di
trascendere la vita reale attraverso l’immaginazione, una ricerca di una nuova
entità della natura oltre i suoi confini fisici.
E
propria del poeta è la fantasia, una sorta di memoria capace di cavalcare
spazio e tempo attraverso processi associativi, una facoltà logica che riceve
materiale da fonti distanti e che aggregandole riesce a muovere l’animo del
lettore.
In
immagini di tempi e luoghi lontani attraverso i versi di Coleridge il gotico
sfocia nell’esotico, il dettaglio realistico diventa fenomeno sovrannaturale e
la willing sunspension of disbelief -la
volontaria sospensione dell’incredulità- ,
l’atto di fede di chi vuole penetrare i misteri della poesia, è finalmente
realizzata.
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