mercoledì 20 marzo 2013

Intorno al monologo interiore


I primi anni del novecento vedono profilarsi una vera e propria rivoluzione che coinvolge la sfera del pensiero e di tutto il sentire in generale.

La scoperta dell’inconscio da parte di Freud, definito come “vera  realtà psichica” arriva a scardinare le certezze positivistiche insinuando l’idea che attraverso la rimozione l’inconscio è capace di annullare il fatto reale e di creare ciò che oggettivamente  sembra non esistere attraverso paure e desideri.

Un’insolita idea del tempo, introdotta dal filosofo francese Henri Bergson porta ad un  nuovo modello di realtà la cui consistenza viene relativizzata a seconda della persona che l’interpreta. Bergson distingue tra un tempo oggettivo, scientificamente calcolabile attraverso i mezzi che ci consentono di scandirlo,  e un altro soggettivo, diverso da un individuo all’altro o addirittura diverso nello stesso individuo a seconda dell’umore o delle circostanze o da ciò che a quell’individuo passa per la testa.

Il medesimo tempo a seconda dell’azione che si svolge nel suo arco (o come la definisce Bergson stesso nella sua  “durata”), può avere misure diverse pur rimanendo identico a se stesso. Come  dire che il tempo dell’attesa è sempre più lungo per chi aspetta di quello che oggettivamente risulta dall’orologio, così come il tempo del divertimento o del piacere sembra essere sempre breve, molto più breve di quanto le lancette di un orologio dicano.

Un altro importante contributo viene dall’americano William James, fratello del celebre HenryJames, antesignano del monologo interiore  in età vittoriana. William  James parla dell’influsso del mondo  interiore sulla vita dell’uomo. Secondo il filosofo americano  l’uomo non  è che   “flusso di coscienza”.

Il romanzo del Novecento risente profondamente di queste idee e il vecchio romanzo ottocentesco tradizionale, vittoriano, realista si fa distante e inadeguato a raccontare la vera vita dell’uomo. Lo scrittore si accorge di quanto monca di qualcosa sia la vecchia maniera di raccontare, che una storia passa attraverso i pensieri , le paure, le speranze, le angosce, i sentimenti più veri dei personaggi, e che mostrare ciò che è oggettivamente visibile non basta a raccontare i fatti della vita.

I precursori ottocenteschi di questa nuova idea del narrare si erano gia visti: Dostoewskij nelle sue "Memorie del Sottosuolo" aveva fornito una sorta di flusso di coscienza ante litteram attraverso i pensieri del protagonista senza nome, così come aveva fatto il su citato Henry James anticipando il monologo interiore dei modernisti.

Anche Marcel Proust nella sua mastodontica “Alla ricerca del tempo perduto” aveva affermato che una storia va narrata attraverso la memoria  ed era arrivato a definire una vera e propria  teoria del ricordo, una sorta di memoria emozionale  attraverso cui rivisitare e rivivere il passato.

Inconfutabile in tutti questi l’analogia con Joyce: la coscienza che tende ad oggettivizzare la realtà  o viceversa la realtà trasfigurata dalla coscienza.

Questo bisogno di espressione estremizzata del reale necessitava quindi di uno stile capace di porsi da una prospettiva diversa: che dalla mente arrivasse al mondo esterno, che fosse capace di pervenire alle radici più profonde delle azioni attraverso la maniacale analisi dell’inconscio.

Ma il pensiero più insito, così per com’è, non si presenta di solito come  lineare, razionale, sequenzialmente logico. Il pensiero nel suo stato embrionale è spesso confuso, frammentario, magmatico. E è questo lo stile che il romanzo deve seguire.

Dorothy Richardson, nel suo romanzo “Pointed Roofs” (1915) fu la prima scrittrice inglese a tentare una tecnica che mescolando i diversi piani temporali raccontasse un personaggio attraverso i suoi pensieri.

Ma lo scrittore il cui nome viene tradizionalmente associato al monologo interiore giacché ne fece uso col più brillante dei risultati, fu  notoriamente James Joyce.

Fu proprio lui a mettere stilisticamente in atto l’idea che il pensiero interiore, il suo flusso, non è facilmente intellegibile. E nel celeberrimo “Ulisse” Joyce riporta  pensieri  ed emozioni proprio nella maniera in cui questi attraversano la mente, lasciando insinuare il lettore nella testa di Leopold Bloom, lasciando scomparire il narratore e dimostrando che la vita non è fatta che di pensieri.

A questo punta torna in mente un altro eccentrico della letteratura inglese, Lawrence Sterne, uno scrittore che già nel Settecento,  alle prese con un genere (il romanzo) appena nato, lo aveva già violato nella struttura narrativa che gli era più tipica, scardinando la sequenzialità logica, per spingersi verso i pensieri più assurdi del protagonista. Nel suo "Tristram Shandy", Sterne era  perfino arrivato a distruggere la parola stessa  attraverso strane linee e gli strani segni  confusi impressi nelle pagine del romanzo fino ad ammutolire la parola nelle pagine totalmente  bianche. Sterne era perfino andato oltre il modernismo, al limite delle avanguardie.

mercoledì 13 febbraio 2013

Chi sono gli Hipster?


Gli hipster  appartengono a quella tendenza della subcultura contemporanea (radicata negli anni ’40) che ostenta una marcata indipendenza dalle mode correnti  attraverso scelte alternative, opinioni politiche tendenzialmente liberali,  stili di vita estranei alle consuetudini borghesi e una certa spiritualità diversa che oscilla tra l’agnosticismo e il  professato ateismo.

Un  hipster si riconosce da come si veste: impeccabile nell’apparente casualità dell’abbigliamento;  occhiali da nerd,  pantaloni skinny, fluo, t-shirt a effetto,  sneakers finto-logore, camicia tartan, cappelli, mini inguinali con calze vistose. 

L’aspetto è sicuramente antipatico. Gli hipster non suscitano simpatia perché vogliono essere diversi a tutti i costi e l’anticonfomismo professato non è mai ben accetto:  palesare il voler essere diversi da chi ti circonda presuppone un certo senso di superiorità nei confronti degli altri, se non disprezzo.  Ma questo inerisce solo il come si viene percepiti.

Voler essere diversi intimamente nasce dal bisogno di essere accettati per come si è intimamente,  a prescindere da come gli altri ci spingono ad essere. Si cerca sempre  di essere come gli altri ma solo quando si è soli si è davvero autentici.  Ecco perché l’hipster, lo snob di oggi, è solo; proprio come il dandy di ieri.