I primi anni del novecento
vedono profilarsi una vera e propria rivoluzione che coinvolge la sfera del
pensiero e di tutto il sentire in generale.
La scoperta dell’inconscio da
parte di Freud, definito come “vera
realtà psichica” arriva a scardinare le certezze positivistiche
insinuando l’idea che attraverso la rimozione l’inconscio è capace di annullare
il fatto reale e di creare ciò che oggettivamente sembra non esistere attraverso paure e
desideri.
Un’insolita idea del tempo,
introdotta dal filosofo francese Henri Bergson porta ad un nuovo modello di
realtà la cui consistenza viene relativizzata a seconda della persona che
l’interpreta. Bergson distingue tra un tempo oggettivo, scientificamente
calcolabile attraverso i mezzi che ci consentono di scandirlo, e un altro
soggettivo, diverso da un individuo all’altro o addirittura diverso nello
stesso individuo a seconda dell’umore o delle circostanze o da ciò che a
quell’individuo passa per la testa.
Il medesimo tempo a seconda dell’azione che si svolge nel suo
arco (o come la definisce Bergson stesso nella sua
“durata”), può avere misure diverse pur rimanendo identico a se stesso.
Come dire che il tempo dell’attesa è
sempre più lungo per chi aspetta di quello che oggettivamente risulta
dall’orologio, così come il tempo del divertimento o del piacere sembra essere
sempre breve, molto più breve di quanto le lancette di un orologio dicano.
Un altro importante
contributo viene dall’americano William James, fratello del celebre HenryJames, antesignano del monologo interiore
in età vittoriana. William James
parla dell’influsso del mondo interiore
sulla vita dell’uomo. Secondo il filosofo americano l’uomo non
è che “flusso di coscienza”.
Il romanzo del Novecento
risente profondamente di queste idee e il vecchio romanzo ottocentesco
tradizionale, vittoriano, realista si fa distante e inadeguato a raccontare la
vera vita dell’uomo. Lo scrittore si accorge di quanto monca di qualcosa sia la
vecchia maniera di raccontare, che una storia passa attraverso i pensieri , le
paure, le speranze, le angosce, i sentimenti più veri dei personaggi, e che
mostrare ciò che è oggettivamente visibile non basta a raccontare i fatti della
vita.
I precursori ottocenteschi di
questa nuova idea del narrare si erano gia visti: Dostoewskij nelle sue "Memorie del Sottosuolo" aveva fornito una sorta di flusso di coscienza ante litteram attraverso
i pensieri del protagonista senza nome, così come aveva fatto il su citato
Henry James anticipando il monologo interiore dei modernisti.
Anche Marcel Proust nella sua
mastodontica “Alla ricerca del tempo perduto” aveva affermato che una storia va
narrata attraverso la memoria ed era arrivato a definire una vera e propria teoria del ricordo, una sorta di memoria emozionale
attraverso cui rivisitare e rivivere il
passato.
Inconfutabile in tutti questi
l’analogia con Joyce: la coscienza che tende ad oggettivizzare la realtà o viceversa la realtà trasfigurata dalla
coscienza.
Questo bisogno di espressione
estremizzata del reale necessitava quindi di uno stile capace di porsi
da una prospettiva diversa: che dalla mente arrivasse al mondo esterno, che
fosse capace di pervenire alle radici più profonde delle azioni attraverso la maniacale
analisi dell’inconscio.
Ma il pensiero più insito,
così per com’è, non si presenta di solito come
lineare, razionale, sequenzialmente logico. Il pensiero nel suo stato
embrionale è spesso confuso, frammentario, magmatico. E è questo lo stile che il
romanzo deve seguire.
Dorothy Richardson, nel suo
romanzo “Pointed Roofs” (1915) fu la prima scrittrice
inglese a tentare una tecnica che mescolando i diversi piani temporali raccontasse
un personaggio attraverso i suoi pensieri.
Ma lo scrittore il cui nome
viene tradizionalmente associato al monologo interiore giacché ne fece uso col
più brillante dei risultati, fu notoriamente James Joyce.
Fu proprio lui a mettere
stilisticamente in atto l’idea che il pensiero interiore, il suo flusso, non è facilmente
intellegibile. E nel celeberrimo “Ulisse” Joyce riporta pensieri ed emozioni proprio nella maniera in cui
questi attraversano la mente, lasciando insinuare il lettore nella testa di
Leopold Bloom, lasciando scomparire il narratore e dimostrando che la vita non è
fatta che di pensieri.
A questo punta torna in mente
un altro eccentrico della letteratura inglese, Lawrence Sterne, uno scrittore
che già nel Settecento, alle prese con
un genere (il romanzo) appena nato, lo aveva già violato nella struttura
narrativa che gli era più tipica, scardinando la sequenzialità logica, per
spingersi verso i pensieri più assurdi del protagonista. Nel suo "Tristram Shandy", Sterne era perfino arrivato a
distruggere la parola stessa attraverso strane linee e gli strani segni confusi impressi nelle pagine del romanzo fino ad ammutolire la parola nelle pagine totalmente bianche. Sterne era perfino andato oltre il
modernismo, al limite delle avanguardie.