giovedì 11 gennaio 2018

La Ballata Medievale

 

 

 La Ballata Medievale

 

La ballata  può essere definita come una forma di poesia popolare, di carattere generalmente  narrativo che impiega uno schema metrico diretto e semplice fatto da  quartine. L’origine della ballata risale  a modelli francesi, così come a fonti latine o inglesi: racconti in versi che parlavano di amore ma anche di draghi, fate e ogni sorta di arzigogoli sovrannaturali che spesso si sposavano a fatti cavallereschi.
Le ballate appartengono alla tradizione delle canzoni popolari, e non sono altro che poesie composte per essere cantate o ballate  con o senza accompagnamento. Questa origine musicale della ballata è testimoniata dal nome stesso del genere  che deriva dall’antico francese balade che significa canzone che si balla, anche se in tempi più recenti la maggior parte delle ballate sono state  recitate. Gli autori di queste ballate erano gente comune, anonima,   che non si preoccupava di apporre la firma al proprio pezzo ma  di tramandarlo  oralmente di generazione in generazione.
Lo svolgimento narrativo della ballata è frammentario e le ballate medievali  sono state paragonate a certi film la cui trama può essere seguita attraverso immagini slegate,  flashback, dialoghi e parti meramente narrative dal tono  sempre impersonale dove l’emozione  dell’autore é silenziata in attesa della spontanea reazione dello spettatore.
Testi ripetitivi, frasi semplici e dall’aura profetica, ritornelli che separano pezzi di storie strutturalmente legate alla metrica e ad una melodia che non conosciamo più. Un mondo popolato da animali e uccelli, streghe, fantasmi,  fate, cavalieri e donne abbandonate. Ballate che parlano di magia, ballate d’amore, ballate che parlano d’ amor patrio,  e ballate con l’impegno civico in difesa dei poveri come quelle del ciclo di Robin Hood.
La qualità musicale della ballata è stata recepita dalla musica contemporanea  attraverso cantanti famosi quali Bob Dylan, o Bruce Springsteen, per fare solo qualche nome, o l’italianissimo Fabrizio De Andrè per rimanere sulla nostra terra. Le canzoni che oggi ascoltiamo sono le figlie naturali della ballate medievali che da questo genere così antico ha saputo cogliere il moderno senso di inquietudine e di sradicamento unito alla voglia di evasione tipica dell’uomo moderno, ma anche dell’uomo del Medio Evo; ecco perché la ballata è un genere eterno, oltre ogni epoca.

 

 
 

martedì 14 marzo 2017

"Questo è solo per dire"


 "This is Just to Say"    è il titolo di una breve poesia di William Carlos Williams, un esempio del suo oggettivismo conciso, apparentemente freddo, ironico, semplice e manierato nei dettagli,  senza pensieri profondi, idee, o concetti:

Ho mangiato
 le susine
che erano nel
 freezer
 e che tu avevi probabilmente
 conservato
 per la colazione.
Scusami
erano deliziose
così dolci
e così fredde 
(1)  traduzione di Corinzia Monforte

Eppure il fatto banale, oggetto della poesia è tale solo se rapportato al quotidiano. Questa apparente  nota sul tavolo della cucina o appesa al frigo che risponde alla poetica della banalità, del particolare che diventa enorme é tutt’altro che ovvietà poetica.

E’ infatti un  “solo per dire” delle umane tentazioni a cui si cede inesorabilmente,  un flash del quotidiano, l’apoteosi dell’inezia,  esempio sublime d'imagismo, e se vi guardiamo dentro    è una poesia d’amore. Che parla diversamente d’amore, anche se di un amore per nulla eccezionale, uguale a tanti altri, che  è magnificato perfino dall’egoismo, suo contrario.

Come in uno di quei sonetti shakespeariani (2), dove l’amante attraverso l’esaltazione dei difetti dell'amata canta l’autenticità e la schiettezza del suo sentimento, così Williams chiede scusa per un peccato di gola, non senza ricordare sensualmente il piacere provato nel commetterlo, e tuttavia si dispiace al pensiero che il suo gesto avrà rovinato la colazione della sua lei. 

“Questo è solo per dire”  è un’immagine a caso che illustra un sentimento popolare attraverso parole che  di certo ingannano se non si procede oltre l’immediata lettura. Come avviene per quelle cose che ogni giorno si vedono senza alcuno sguardo e che lasciano sfuggire che proprio lì risiede la poesia, proprio dove non la si vede, nelle cose di ogni giorno.



(2)  Sonetto 130 (“Gli occhi della mia signora non sono per nulla come il sole”)

 

 

The Collected Poems of William Carlos Williams,  Ed.  A. Walton Litz, Christopher Macgowan, 1991

W.C.Williams, Paterson, Mondadori, 1997

W.C.Williams, Molti amori, Einaudi, 1997

W. Shakespeare, I Sonetti, Newton, 1988

La follia di Thomas Nashe


 

Jack Wilton, protagonista del  Viaggiatore Sfortunato”, nonché io poetico ed alter ego di Thomas Nashe,  è l’esempio perfetto dell’ antieroe, la versione capovolta  del cavalier cortese di memoria medievale, il contrario del saggio uomo del Rinascimento così  come appare nell’immaginario collettivo. E’ un ladro, un bugiardo, un furfante che indossa la maschera della follia per permettere al suo autore di dire quello che gli pare sul mondo e sulla società contemporanea.

Nashe si fa burla della vita  e di tutto quello che della vita non approva, e si fa pazzo attraverso il suo Jack, personaggio creato attingendo ai racconti osceni di Rabelais, di Chaucer, alla commedia dell’Arte e al  rude umorismo dei Fablieaux .

Nel “Viaggiatore Sfortunato” il  mondo è capovolto, la moralità è un’altra e ben diversa da quella corrente e tutto si fa comico, paradossale, ma tremendamente vero.

Lo scemo-saggio,  buffone di corte nonché  bocca della verità che per scherzare dice il vero,  attraverso   una    visione lucida e forte,  ci racconta dell’ipocrisia della società, della malvagità degli esseri umani  e della stupidità corrente da cui pochi sembrano salvarsi.

Gesta oscene e maliziose  vengono raccontate allegramente in uno strano miscuglio dove serio e faceto sono intercalati da sobri sermoni contro il malcostume, i limiti intellettuali e culturali del tempo,  gli eccessi della Chiesa.

Sembrano quasi stonare il tono didattico e quello burlesco; e stridente e  paradossale appare la satira contro la poesia rinascimentale di cui l’autore era pure esponente. Denigrando  l’immagine di Surray,  Jack Wilton  si fa  beffa della vuota retorica dei versi del suo tempo.

E la  folle figura di Jack Wilton é la libertà espressiva di Thomas Nashe.     

 

 

AA.VV. An Anthology of Elisabethan Prose Fiction. Oxford, OUP, 1987.

J.Hollander, F.Kermode, The Literature of Renaissance England, USA, OUP,  1973.

La rabbia di Jimmy Porter



Jimmy Porter, protagonista di Look Back in Anger[1],  nonché riflesso autobiografico di John Osborne, è un giovane colto di origine operaia che aveva sognato una vita diversa da quella che la società finisce con l’offrirgli.

Porter vive con la moglie Alison in un monolocale  squallido e sporco  tra un lavabo, un asse da stiro, ed  orribili mobili desueti che alimentano la rabbia e il sentimento per tutto ciò che lo circonda, compresa la moglie, la cui estrazione sociale è quella borghesia che Jimmy detesta.

Jimmy è  alto e magro, impaziente, orgoglioso, diretto e impetuoso  e verbalmente violento. Ha la rabbia di chi ha subito l’ingiustizia sociale, di chi lottando non ha visto riconosciuti  i propri meriti e pur avendo studiato e dal basso sognato di condurre un certo tipo di vita si sente emarginato.

Ma Jimmy è uno snob che offende perché offeso dalla volgarità, dai luoghi comuni e dalle ipocrisie di una società in decadenza.  Un personaggio apparentemente contraddittorio, ma quanto mai realistico. Del paradosso ha l’immagine con cui la moglie Alison lo aveva idealizzato, della realtà ha l’immediatezza che si rispecchia nelle frasi gergali con cui si esprime.

Ma Look Back in Anger non racconta di liti:  perché il protagonista è tollerato con rassegnazione, silenzio o ironia da chi lo conosce ed oramai nemmeno lo ascolta più.

Come un bambino suscita tenerezza ed ha bisogno di amore, crede nei sogni ma si deve scontrare con la realtà. Portavoce degli Angry Young Men, i Giovani Arrabbiati  degli anni ’50, Jimmy Porter rappresenta  il gap di una generazione che vedendo  venire a mancare  gli antichi valori, le illusioni della gioventù   guarda al passato col dolore per la scomparsa delle ultime cose buone rimaste.

(1) In Italiano conosciuto col titolo “Ricorda con rabbia”

Riferimenti bibliografici

K. Allsop , The Angry Decade: A Survey of the Cultural Revolt of the Nineteen-Fifties, Owen Ltd, London, 1969

J. Osborne, Look Back in Anger, Faber&Faber, London ,1957




[1] In Italiano “Ricorda con rabbia”

Il Dramma Elisabettiano


Un viaggiatore del tempo che si trovasse ad assistere alle tragedie greche per poi catapultarsi nell’Inghilterra dei Tudor rimarrebbe impressionato dalla fondamentale diversità dei due tipi di rappresentazioni sceniche.

Colpisce in primo luogo la modalità di presentazione del tempo da parte del dramma shakespeariano rispetto alla tragedia greca. Nel mondo antico infatti l’opera iniziava in medias res, cioè a fatti già accaduti, e i personaggi tragici non dovevano che raccontare, spiegare il motivo del loro dolore; Shakespeare invece, in un fluire diacronico, lascia che sia lo spettatore ad assistere a ciò che accade. Fatto impensabile e assurdo secondo la logica pseudo-aristotelica che pretendeva l’unità di tempo, di azione e di luogo.

Il dramma classico infatti poneva la sua enfasi sugli effetti delle azioni umane, sulla tragicità intrinseca e sofferta dei personaggi, piuttosto che sul racconto dei fatti. La catarsi era il fine, e a tale scopo era necessaria l’immedesimazione. Questa era la giustificazione connessa al richiamo alle regole.

Ma Shakespeare va oltre questa disubbidienza. E rompendo anche con la netta, classica distinzione tra dramma, tragedia e commedia si fa demiurgo di opere che insieme alla commozione regalano il sorriso. Proprio ad imitazione della vita stessa dove la gioia si mescola al dolore ed il riso al pianto, i personaggi shakespeariani, fuoriuscendo dai modelli, diventano umani: maschere tra gli uomini, uomini che solo indossano una maschera.

E la tragedia classica, un tempo proiezione di emozioni, cede il passo al dramma elisabettiano che è specchio della vita;  ed il teatro,  come recitava l’iscrizione sul “Globe Theatre” di proprietà di William Shakespeare non è che il mondo. Perché

"Totus mundus agit histrionem” (1)

 

 

 

 

(1) Tutto il mondo recita una parte.

 

Riferimenti bibliografici:

G. Baldini, Manualetto shakespeariano, Einaudi, 2001.

C. Segre, Teatro e romanzo, Einaudi, 1984.

W. Shakespeare, Tutte le opere, Sansoni, 1964.

Chaucer e Boccaccio


 

 

 

L’influenza di Boccaccio in Chaucer fa parte di quel genere di suggerimenti letterari che  si rivelano diversamente da come erano stati inizialmente percepiti. Che la cornice dei Racconti di Canterbury sia il riflesso della cornice del Decameron è elemento noto ed innegabile. La prima  però, differentemente dall’altra,  finisce con l’essere l’elemento portante del libro per una serie di motivi che vanno oltre il fatto che  si tratti di un’opera incompiuta.

Laddove infatti il Boccaccio aveva indistintamente scelto a protagonisti dei giovani di buona famiglia, tralasciandone la personalità, Chaucer invece sceglie con cura ogni personaggio traendolo da differenti classi sociali.

Quelli di Chaucer, anche se appartenenti alla tradizione, come la priora, il frate libertino, il medico venale o il parroco onesto sono personaggi ben lungi dall’essere stereotipi, anzi sembrano quasi in carne ed ossa, e il poeta li scruta con simpatia ed affetto, li analizza non focalizzando l’attenzione sulle maniere  al modo del Boccaccio, ma tentando di raccontarli dal punto vista psicologico attraversi descrizioni dettagliate.

Chaucer sembra a volte perfino innamorato dei suoi personaggi, come accade con la Priora di cui ironicamente racconta particolari che potrebbero metterla in cattiva luce soltanto al lettore più bacchettone. Così di fronte a  questa suora che si impietosisce per i suoi cagnolini e che porta scritto sul bracciale “Amor vincit Omnia”  lasciando intendere un tipo di amore tutt’altro che sacro, il lettore moderno sorride di simpatia e la sente vicino a sé e ai suoi tempi.

Oltre la boccaccesca idea della raccolta di storie,  molto di più di un affresco del Medio Evo, i Racconti di Canterbury sono una galleria di esseri umani da annoverare a tutti i tempi.

 

 

 

Riferimenti bibliografici:

G. Chaucer, The Canterbury Tales tradotto (in inglese moderno) da B. Raffel, New York,  2008.

G. Boccaccio, Decameron, Milano, 2008

P. Boitani, Chaucer and the Italian Trecento, Cambridge, 1983

sabato 11 marzo 2017

Tra la gente di Dublino: Eveline

Eveline ferma a pensare davanti alla finestra.: sta per lasciare casa sua, via per sempre col suo ragazzo, Frank, alla volta di Buonos Aires dove l’aspetta un’altra vita. Da lì guarda le case che si trovano dove prima, nella sua infanzia, c’era il campo in cui i bambini giocavano: i Devine, i Water, i Dunn, il piccolo Keogh che chiamavano lo zoppo, e i suoi fratelli, le sue sorelle e suo padre, le persone più importanti della sua vita.
Rivede “ tutti i suoi oggetti familiari che per così tanti anni aveva spolverato una volta alla settimana”, “tutti quegli oggetti familiari da cui mai avrebbe immaginato si sarebbe separata.
Eveline é avvolta da un’atmosfera statica, malinconica, immersa in una solitudine calda ed un silenzioso senso di tristezza, come in un addio.
Ma partire adesso non sembra più necessario. Eveline potrebbe anche rimanere e forse sarebbe questa la scelta più saggia. Casa sua è il nido più sicuro accanto ai suoi cari, nonostante rimanere le imponga anche di continuare a lavorare duro sia a casa che ai magazzini dove fa la commessa. Abbandonare quest’ultimo posto però non le dispiacerebbe affatto. E lontano da casa sarebbe stato completamente diverso: si sarebbe sposata e la gente l’avrebbe rispettata.
Eveline associa gli oggetti che vede a ricordi, persone ed episodi che hanno segnato la sua vita: le case che sorgono al posto del campo da gioco e i bambini con cui giocava, la foto di un prete appesa al muro e la maniera in cui suo padre ne confondeva l’identità.
Niente succede davanti alla finestra, se non un continuo flusso di pensieri, ricordi e considerazioni che si susseguono, si accavallano e si confondono coi sentimenti.
Eveline è un personaggio interiore: del suo essere fisico si percepisce solo un’ombra, mentre i suoi pensieri animati tessono la trama del racconto.
Il tempo si aliena ogni forma di diacronia e si fa sincronico, muovendosi avanti e indietro, inseguito dai ricordi culminanti nell’epifania:
“Mentre pensava, la pietosa immagine della vita della madre poggiava il suo incantesimo nel suo essere più profondo – quella vita di comuni sacrifici che finiva nella pazzia finale. Tremava mentre sentiva ancora la voce di sua madre che diceva costantemente con assurda insistenza:
“Derevaun Seraun! Derevaun Seraun!”
Si alzò in un improvviso impulso di terrore. Fuggire! Fuggire! Frank l’avrebbe salvata. Le avrebbe dato la vita, forse anche l’amore. Ma lei voleva vivere. Perché doveva essere infelice? Aveva il diritto di essere felice. Frank l’avrebbe portata tra le sue braccia, avvolta tra le sue braccia, L’avrebbe salvata”.
Partire é la scelta giusta.
Eveline si ritrova al porto, mentre sta per salire sulla nave. La sua mano in quella di Frank. Lui aveva fatto tanto per portarla con sé, il biglietto era stato pagato e lei non poteva più tirarsi indietro.
La storia si svincola tra la polvere ed il mare, la prima a simboleggiare la staticità del vecchio, il chiuso della consuetudine e i limiti che la vita ci impone, ed il mare che è acqua e quindi rinnovamento, che è aperto e quindi è libertà.
Ma Eveline è di Dublino, appartiene cioè ad una città il cui tratto distintivo è quella “paralisi” che impedisce alla sua gente di migliorare le proprie condizioni di vita. Eveline appartiene ad un mondo in cui non accade nulla e le azioni fluiscono nel solo pensiero dei suoi abitanti.